Forum Comunista Internazionalista

Lorenzo Parodi. Sindacalista e Comunista Rivoluzionario

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view post Posted on 31/10/2011, 08:27

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Se puoi inserisci un articolo di Lotta Comunista che documenti la sua vita, sarebbe interessante.
 
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mannoio
view post Posted on 31/10/2011, 12:01




CITAZIONE (N-Z @ 31/10/2011, 08:27) 
Se puoi inserisci un articolo di Lotta Comunista che documenti la sua vita, sarebbe interessante.

Lorenzo Parodi (1926-2011)
La vita fortunata di Lorenzo Parodi
tratto da Lotta Comunista luglio-agosto 2011

Il 31 luglio è mancato a Genova Lorenzo Parodi. Nato nel 1926, operaio all’Ansaldo Meccanico e resistente nella lotta partigiana nelle fila del comunismo libertario, fondatore con Arrigo Cervetto del nostro partito nel solco del leninismo, teorico e dirigente rivoluzionario, Parodi è stato per trentaquattro anni, dall’aprile del 1977 sino a poche settimane dalla morte, il direttore responsabile del giornale “Lotta Comunista”.
All’inizio della vicenda del gruppo di uomini che darà vita a Lotta Comunista c’è la guerra mondiale imperialista, con la sua impronta indelebile sulle vite dei singoli, sulle classi e sulle psicologie sociali. In uno studio messo a disposizione per una ricostruzione della storia di partito, Parodi descrive i primi passi della sua iniziazione politica proprio a partire da quella condizione:
«L’apprendistato professionale precede il noviziato politico di un anno. Inizia all’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena nell’estate del 1942, quando l’ultimo sforzo bellico produce l’infornata più cospicua delle nuove leve operaie. Bartolomeo Parodi, “battimazza” al reparto fucinatura del Meccanico, riferisce in famiglia delle richieste di manodopera; il figlio si presenta a compilare la domanda d’assunzione il cui modulo reca la voce “da chi siete raccomandato?”. Risponde: “raccomandato dal padre”. Assunto, lascia la piccola bulloneria di Nervi (primo lavoro a 14 anni) e si ritrova al reparto “macchine piccole” del Meccanico. Nella primavera del 1943, l’apprendista sente per la prima volta parlare di sciopero. Partecipa a quel momento di spontaneità operaia assistendo alle discussioni intorno alla figura e alle funzioni dei “fiduciari”. [...] Le difficoltà di coniugare i tentativi di recupero “democratico” dei sindacalisti fascisti con il corso spontaneo della rabbia operaia, da tanto tempo compressa, diventano evidenti nella congiuntura politica del “25 luglio”. Al Meccanico, in questa circostanza, “fiduciari” e cronometristi sono associati al nemico di classe e cacciati dai reparti di lavoro. Da una finestra del reparto prende il volo il tavolo di lavoro dei cronometristi. [...] È in questa occasione che [...] chi scrive apprende così dell’esistenza di un comunismo “diverso” da quello stalinista della chiesa moscovita, ossia il comunismo libertario. Dopo l’“8 settembre” ci si viene a trovare tra l’incudine dei bombardamenti americani, responsabili della morte di vari compagni di lavoro anche al Meccanico, e il martello delle “retate” tedesche che fanno razzia di manodopera. Un giorno della primavera 1944, giunto a Sampierdarena per il turno dalle 14 alle 22, chi scrive è avvisato da amici che al Meccanico è in corso una “retata” per trasferire manodopera in Germania. Decisione istantanea: si riprende il tram per il ritorno a Nervi e ci si dà “alla macchia”».
La guerra, la fabbrica, gli scioperi del 1943, la via obbligata della clandestinità per sfuggire alla deportazione sono il dato oggettivo e anche il caso, in quelle circostanze storiche eccezionali in cui è precipitata tanta parte di una giovane generazione operaia. La ribellione a quella condizione, la scelta della lotta e della militanza di classe fanno parte invece del carattere degli uomini che scelgono di non subire, della loro tenacia e della loro passione rivoluzionaria. In una pagina dell’introduzione a “Cronache Operaie”, la raccolta delle sue corrispondenze di fabbrica degli anni Cinquanta per “Il Libertario” e per “Prometeo”, Parodi accenna a quei primi passi della sua vicenda politica, dalla ricerca iniziale nel comunismo anarchico sino all’approdo al marxismo e alla concezione leninista del partito. Costretto alla clandestinità, Parodi si unisce nel 1944 a un gruppo di compagni che «hanno dovuto fare una scelta politica», nel rifiuto della linea di «collaborazione nazionale» imposta da Togliatti appena approdato a Salerno. La scelta diventa «il comunismo libertario e internazionalista», contrapposto alla linea del PCI e alla sua obbedienza staliniana. Seguiamo Parodi: «A Genova esiste una tradizione libertaria e anarco-sindacalista che risale al processo di formazione del movimento operaio, alle peculiarità della Prima Internazionale in Italia, alle reazioni spontanee provocate dal marciume della Seconda Internazionale, quindi alle caratteristiche del primo dopoguerra rosso, quando una Camera del Lavoro importante come quella di Sestri Ponente era a direzione anarco-sindacalista».
La scelta di Parodi è legata a quella tradizione, ma soprattutto vale come «affermazione del rifiuto all’opportunismo togliattiano», nell’idea ancora confusa di «salvare il salvabile» delle energie di classe scaturite dalla Resistenza: «Il responsabile di queste “cronache” era dunque partito con l’idea di far tesoro di tutte le esperienze positive del movimento operaio nelle sue varie componenti e, strada facendo, si è accorto che il primo tesoro da conquistare è l’omogeneità teorica come scienza della rivoluzione. Si è accorto che se Marx aveva impiegato vent’anni per scrivere il “Capitale”, non tanti di meno ne occorrono per assimilarlo e comprenderlo appieno. Infine, nel processo collettivo di formazione, ha potuto appurare che se Lenin aveva dovuto impiegare le energie di una intera generazione di rivoluzionari per liberare il marxismo dalla mistificazione socialdemocratica, lo stesso problema e lo stesso impiego di energie si sarebbe posto a più generazioni per liberare il leninismo dalle mistificazioni dello stalinismo».
È proprio la ricerca di un altro comunismo che non fosse la soggezione a Mosca del PCI staliniano che mette in contatto Lorenzo Parodi e Arrigo Cervetto, tra il 1948 e il 1949. Il terreno d’incontro è il tentativo di Pier Carlo Masini e di Cervetto di raggruppare attorno ai giovani della FAI, la Federazione Anarchica Italiana, un movimento comunista libertario «organizzato e federato», che abbandonasse il «nullismo» individualista di tanto anarchismo tradizionale.
Anche Cervetto combina l’esperienza della fabbrica e della lotta partigiana, ma come altri del gruppo di Savona ha militato brevemente nel PCI; Parodi è tra i giovani del gruppo di Genova Nervi; un certo peso organizzato ha il gruppo di Sestri Ponente; Masini ha legami in Toscana e a Roma. Da qui nasceranno i GAAP, Gruppi Anarchici d’Azione Proletaria, e da quell’esperienza in una manciata d’anni Cervetto e Parodi matureranno la scelta per il marxismo e l’organizzazione leninista, mentre Masini rifluirà nel riformismo socialista e socialdemocratico.
Da quei primi passi, che sono l’atto di nascita del gruppo originario che darà vita a Lotta Comunista, non c’è tappa fondamentale nello sviluppo del partito che non abbia visto il ruolo dirigente di Parodi al fianco di Cervetto. Nel febbraio del 1951 il Convegno di Genova Pontedecimo è l’atto fondativo dei GAAP, ma già da un paio d’anni Cervetto con sempre maggiore sicurezza cerca nel marxismo, in “Stato e Rivoluzione” e nella teoria dell’imperialismo di Lenin le risposte sulla questione del potere rivoluzionario, sulla natura sociale dell’URSS e sull’«imperialismo unitario» che accomunava Washington e Mosca. Su quel consesso, quasi del tutto composto da operai e salariati, Lorenzo Parodi fa nel 1974 un’osservazione illuminante, cogliendo in quel tratto di classe «un peso determinante» nel superare le insufficienze iniziali: «Se quel convegno fosse stata un’iniziativa di intellettuali, la dialettica interna dell’organizzazione che si andava formando si sarebbe esplicata nella tolleranza delle differenze e dei dissensi soltanto per pura speculazione ideologica, determinando vere e proprie deformazioni di eclettismo teorico e conseguentemente un’inconsistenza organizzativa. Invece la nostra iniziativa fu subito caratterizzata dalla ricerca dell’omogeneità. Pur scontando le differenze di formazione ideologica che avrebbero ancora pesato a lungo nel processo di elaborazione teorica e lungo l’itinerario del nostro sviluppo organizzativo, avevamo compreso che soltanto ponendoci l’obiettivo di conseguire il massimo di omogeneità teorica e organizzativa avremmo potuto aprirci la via per la ricostruzione del partito di classe in Italia».
Nel 1951, il primo risultato nella ricostruzione del partito fu attestare quel primo nucleo organizzato nella battaglia per l’internazionalismo, contestando la menzogna di Yalta e denunciando nell’URSS e nel suo capitalismo di Stato uno dei blocchi dell’imperialismo unitario. Nel 1957, le “Tesi” Cervetto-Parodi sul ciclo di sviluppo dell’imperialismo e sulla «durata della fase controrivoluzionaria» diventano il fondamento strategico del partito. Già andava svanendo l’illusione che la crisi dello stalinismo, precipitata dai fatti d’Ungheria, potesse smuovere la base del PCI a beneficio dell’eterogeneo cartello raccolto attorno ad “Azione Comunista”. Ciò che per altri era un «fiume più grande», annota Parodi nella sua ricognizione storica, «noi dicevamo che era uno dei soliti torrentelli massimalistici a secco di prospettiva politica». Nella crisi del 1956 il PCI aveva perso 200 mila iscritti, ma il segno era il passaggio al PSI di una folta schiera di intellettuali: «la transumanza era dal monte al piano», ironizza Parodi, «nelle praterie offerte dal cosiddetto “neocapitalismo”».
Le “Tesi del 1957” ripartivano dalla necessità di collegare alla strategia la formazione dei quadri rivoluzionari, nei tempi lunghi del ciclo di sviluppo dell’imperialismo, e ciò cozzava con il «tempo psicologico» della tradizione impaziente del massimalismo. Quel punto fermo contro il «tatticismo attivistico» che aveva compromesso “Azione Comunista”, noterà Cervetto, segnerà la «seconda tappa» nella storia del partito.
La terza tappa, negli anni Sessanta, è legata proprio allo sviluppo capitalistico accelerato che le “Tesi” avevano saputo prevedere, e alle prime lotte spontanee nelle fabbriche che sarebbero culminate nei rinnovi contrattuali dell’autunno del 1969. A partire dalle lotte all’Ansaldo Meccanico nella ristrutturazione postbellica, Parodi si era assunta la responsabilità dell’indirizzo politico della tattica sindacale e dell’attività di fabbrica. Seguiamo ancora la sua ricognizione della storia di partito: «Dall’inizio del 1949, imperversava una ristrutturazione industriale che aveva il suo epicentro in Liguria con migliaia di licenziamenti richiesti ed effettuati. Le imprese intendevano liberarsi degli operai “improvvisati” del tempo della produzione bellica, per poi passare a nuovi sistemi produttivi basati sul risparmio di tempo sui quali ancorare i salari. Genova stava realizzando il “Piano Sinigaglia” della siderurgia a ciclo integrale. L’impianto relativo lasciava dietro di sé una scia di operai morti nei “cassoni” di riempimento per la sua costruzione sul mare. Non dimenticheremo mai quell’operaio morto, trascinato sopra un carretto a mano per le vie di Cornigliano e di Sampierdarena in segno di protesta. L’ILVA e l’Ansaldo erano in pieno ridimensionamento e i nostri compagni delle fabbriche ne erano direttamente coinvolti. [...] Il [nostro] nucleo organizzativo che si formava era prevalentemente operaio e viveva la questione sindacale con viva partecipazione. La sua forma non poteva tuttavia ridursi all’estremizzazione dell’azione sindacale condotta dalla CGIL».
A nome della componente libertaria dei Comitati di Difesa Sindacale, Parodi dal 1951 fu delegato nel Comitato provinciale della FIOM di Genova, e dal 1956 al 1958 membro del Comitato direttivo nazionale della CGIL. Proprio l’insurrezione ungherese testimonia il senso di una battaglia che era politica, prima che sindacale. Nel settembre del 1956, intervenuto in un direttivo nazionale dove «il clima si era fatto di gelo», Parodi aveva contestato a Giuseppe Di Vittorio la copertura ipocrita all’intervento dell’URSS, denunciando in nome dell’internazionalismo proletario il massacro degli operai di Budapest, l’imperialismo di Mosca e il capitalismo di Stato russo. In quel vertice della CGIL, quella di Parodi fu l’unica voce internazionalista a levarsi contro la repressione staliniana: molto più di una testimonianza, perché quell’esempio restò un riferimento per la nuova generazione che di lì a poco sarebbe stata conquistata alla militanza leninista nel sindacato.
Il colossale sconvolgimento economico e sociale degli anni Sessanta, quando gli anni del “boom” spopolavano le campagne e attiravano milioni di immigrati nelle fabbriche del Triangolo industriale, fu la conferma che l’analisi dello sviluppo italiano aveva bisogno dei criteri scientifici della teoria marxista. Scrive Parodi nell’introduzione a “Critica del sindacato subalterno”: «Per noi l’analisi economica è inscindibile dall’azione del partito. Lo testimonia la nostra critica sindacale condotta negli anni ’50: se ci fossimo attardati ad equiparare i monopoli industriali a stagnazione, o alla denuncia di un presunto “capitalismo arretrato”, non avremmo potuto valutare che in brevissimo tempo il capitalismo italiano era destinato a raddoppiare gli obiettivi produttivi posti dal “Piano del Lavoro” della CGIL, senza alcun bisogno di adottare formalmente quel piano».
Le tesi di Antonio Gramsci sul capitalismo negli Stati Uniti, ricche d’intuizioni sociologiche anche se lontane dal metodo marxista, divengono nella riflessione di Parodi lo spunto per imbastire l’analisi del «canovaccio americano» nello sviluppo italiano: «Usando il metodo di Marx, la cui analisi del “Capitale” si è svolta nel paese capitalisticamente più maturo, noi non abbiamo intesa la lezione di “Americanismo e fordismo” in chiave di propaganda antiamericana in omaggio alla guerra fredda. “Americanismo e fordismo” era il riferimento per capire come sarebbe maturata una formazione economico-sociale prodotta da quel tipo di sviluppo e come si sarebbero sviluppati i rapporti di lavoro».
“Le prospettive del tradeunionismo”, nel 1970, lega la questione sindacale proprio all’analisi di quello sviluppo, ai mutamenti di proporzioni tra le classi e le frazioni di classe, alla «crisi di squilibrio» aperta dalla contraddizione tra quello sviluppo accelerato e l’arretratezza dell’apparato statale e del sistema dei partiti.
La possibilità che la «linea riformista del grande capitale» trovasse corrispondenza in una spinta tradeunionista nei sindacati, scalzando o indebolendo l’influenza interclassista dei partiti parlamentari, era un potenziale vantaggio tattico per il partito leninista. Era uno spazio che andava esplorato: nell’analogia con l’esperienza di Lenin, quelle lotte salariali potevano essere un «1905 economico», da afferrare per radicare in Italia un’organizzazione di partito sul modello bolscevico.
La rapida conclusione di quella stagione, nell’insufficienza della spinta tradeunionista e nel ritorno all’influenza parlamentaristica sui vertici sindacali, trascolora agli inizi degli anni Settanta nella «crisi di ristrutturazione». Si apre per Lotta Comunista una nuova fase, che è prima l’accento sul «compito generale» dell’organizzazione e poi, negli anni Ottanta, la battaglia per radicare il partito leninista nella maturità imperialista della metropoli italiana. Si trattava di afferrare, nella complessità del mutamento sociale, i fattori che potevano favorire l’azione di partito e il reclutamento alla politica rivoluzionaria, a partire dalla scolarizzazione superiore di massa e dal peso crescente nella produzione di impiegati e tecnici diplomati e laureati.
Quel mutamento andava però studiato, analizzato, collegato storicamente alle direttrici di lungo periodo dell’imperialismo italiano ed europeo. E il giornale “Lotta Comunista”, organizzando quello sforzo d’analisi, doveva essere attrezzato a quel compito, doveva proporre a una nuova generazione la scienza e l’organizzazione di Marx e di Lenin come partito dell’«ordine scientifico». È così che la nuova tappa nella vita del partito è anche una nuova stagione per Lorenzo Parodi, nello studio dello sviluppo italiano e nella direzione del giornale. Trent’anni di elaborazione sul fronte della battaglia nel sindacato, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, avevano prodotto più di 200 articoli e occupano tre volumi, “Cronache Operaie”, “Critica del sindacato riformista” e “Critica del sindacato subalterno”. Lasciata la fabbrica, nei successivi trent’anni gli “Studi sullo sviluppo del capitalismo italiano” impegneranno Parodi in altri tre libri, con oltre 260 articoli.
Per tre decenni Parodi ha setacciato ogni studio rilevante che sia comparso sullo sviluppo del capitalismo in Italia, sottoponendo ogni autore, ogni dato e ogni tesi alla critica della teoria marxista. Quando il campo è stato dissodato pressoché per intero, alle soglie del nuovo secolo, l’attenzione si è rivolta alle dinastie del capitale internazionale, con gli studi raccolti in “Grandi famiglie del capitale”, e soprattutto all’Europa. Un’elaborazione in gran parte ancora inedita, nell’ultimo decennio, si è indirizzata sulla finanza internazionale e sullo sviluppo del capitalismo in Francia: in questo modo Lorenzo Parodi ha potuto accompagnare anche l’esordio della «nuova fase strategica», con la nuova sfida che essa pone alla teoria marxista e all’organizzazione di partito.
Parodi è stato nel senso migliore operaio teorico, un carattere assente e del tutto anomalo nella tradizione italiana segnata dal massimalismo, semmai accostabile al «senso teorico» che è nei caratteri storici del movimento operaio tedesco, come nota Friedrich Engels. La figura minuta e il porgere disponibile non dovevano ingannare: Parodi aveva dentro un filo d’acciaio temprato nelle asprezze dei primi anni, e anche più avanti, di fronte alla nuova campagna stalinista di intimidazioni e calunnie che segnò gli anni Settanta, aveva sfoderato una sua capacità polemica tagliente e assai temibile. Nel tempo, le tante teorizzazioni e le tante miserie ideologiche che avevano accompagnato lo sviluppo dell’imperialismo italiano, dal ciclo del capitalismo di Stato al liberismo imperialista, sino al ritorno di vecchie suggestioni stataliste con la crisi ideologica della globalizzazione, avevano sollecitato il senso di divertita ironia con cui Parodi guardava al trafficato andirivieni delle scuole storiografiche e sociologiche.
Con l’orgoglio dell’operaio professionale, Lorenzo Parodi era stato fra i primi a familiarizzarsi con le tecnologie della scrittura elettronica. Negli ultimi anni, settimana dopo settimana, prima su “dischetto” e poi su “penna USB”, metteva a disposizione della redazione intere serie di articoli, sui Rothschild, sulla Compagnia di Suez, sul capitalismo francese, sugli archivi Pirelli, appena celando la soddisfazione per una capacità di lavoro ancora così feconda. Mentre illustrava gli elaborati, l’incalzare delle citazioni, dei dati, dei rimandi a testi di venti o trent’anni addietro, era una sfida alla preparazione della redazione.
La questione decisiva è però che quella elaborazione è stata strumento proprio della «omogeneità teorica e organizzativa» del partito, secondo l’intuizione del 1951, e appunto per questo legame tra scienza e partito essa ha contribuito a formare altre tre generazioni di militanti. Pontedecimo e l’internazionalismo nel 1951, le “Tesi” e la fondazione della strategia nel 1957, lo sviluppo e le lotte del «1905 economico» negli anni Sessanta, la «crisi di ristrutturazione» e il mutamento della maturità imperialista negli anni Settanta e Ottanta, la «nuova fase strategica» segnata dall’Europa e dall’Asia a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo secolo: Lorenzo Parodi è stato parte decisiva in tutte le stagioni della nostra storia di partito. Nell’ora del cordoglio, non crediamo di poter essere fraintesi se pensiamo alla sua lunga militanza, quasi settant’anni, come a una vita fortunata: nell’aver contribuito a radicare un partito in cui ha potuto vedere all’opera assieme ben quattro generazioni di militanti, e nell’averlo fatto proprio nella concezione del partito-scienza, saldando teoria e organizzazione.
Vale la prova a contrario. Nei militanti di Lotta Comunista sono fusi il combattente partigiano e il giovane operaio alla ricerca di un altro comunismo nell’idea libertaria, il lavoratore portato alla politica dalla lotta per il salario, il giovane attirato dall’«ordine scientifico» del marxismo nel degrado della società imperialista, ancora il giovane conquistato alla lotta internazionalista, in un’era di crisi, di guerre e di rivolgimenti internazionali. Fuori dall’organizzazione leninista, di quegli apporti non è rimasto nulla che sia politicamente vitale: imbolsito nella retorica il mito patriottardo della Resistenza, rifluite le suggestioni spontaneiste o sindacaliste, arruolate tra i quadri della borghesia o intontite nella suggestione dell’individualismo le successive leve giovanili sfiorate dalla passione politica.
Fortunato Lorenzo Parodi, ad aver speso un’intera lunga vita attorno a un principio di partito che si è rivelato vero e vitale, e ad averlo visto radicato nelle tre generazioni che gli si sono affiancate. Fortunati noi, ad aver beneficiato così a lungo della sua passione disciplinata.
 
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mm81
view post Posted on 31/10/2011, 12:12




Come mai è sparito il messaggio precedente a quest'ultimo?
Qualcuno si è accorto che invece di essere una commemoriazione era una critica a Parodi? Non ne condivido l'impostazione in modo assoluto, però lo ripubblico. Meglio leggerli gli articoli, prima ...

Dino Erba



La vita fortunata di Lorenzo Parodi



Con questo titolo, «Lotta Comunista» (n. 491-492, luglio-agosto 2001)ha ricordato Lorenzo Parodi,«cofondatore del partito».Titolo emblematico!


Il 31 luglio 2011 è morto Lorenzo Parodi, era nato a Genova il 24 maggio 1926. La sua lunga e «fortunata» vita coincide con un periodo felice per una parte della classe operaia italiana,quella del «triangolo industriale», in cui egli finì per riflettere il proprio orientamento politico.


Nell’estate del 1942, a 16 anni, Lorenzo entrò all’Ansaldo Meccanica di Sampierdarena (Genova),uno dei colossi della siderurgia di Stato italiana (si costruivano turbine per le centrali idro e termoelettriche e poi i principali apparati per l’industria nucleare italiana). Nella primavera del 1944, si dette alla «macchia», per sfuggire alle retate nazifasciste e al lavoro coatto in Germania. E partecipò alla «Resistenza». Come molti suoi coetanei operai, Lorenzo visse una stagione tragica, ma al tempo stesso eroica. Come molti giovani operai, che lottavano,armi alla mano, per un mondo migliore, si oppose ai compromessi dei nazional-comunisti di Togliatti. Ma fu uno dei pochi, che ne seppe trarre le conseguenze: la sua militanza avvenne al di fuori del CLN, avvenne nelle file del movimento anarchico e libertario[1].


Con questo orientamento, affrontò i problemi del dopoguerra, che incombevano sulla classe operaia, a partire dalla ricostruzione; si incontrò con altri giovani operai anarchici, che cercavano di trovare una risposta politica alle pulsioni rivoluzionarie del momento. Per farlo, dovevano uscire dalle strette in cui il movimento anarchico si dibatteva, in seguito al tragico fallimento della guerra di Spagna, e che aveva esasperato il persistente dilemma tra scelte individualiste e scelte «organizzativiste». Tra coloro che spingevano verso una scelta «organizzativista», c’era Arrigo Cervetto, cui Lorenzo legò le proprie sorti.


Via via,entrambi cercarono una soluzione nel marxismo e si confrontarono con chi, in Italia, costituiva un punto di riferimento marxista, ovvero gli internazionalisti della Sinistra Comunista.


Il periodo era tra i più complessi, poneva all’ordine del giorno questioni fino allora inedite, per l’analisi marxista. C’erano la «guerra fredda» e il Piano Marshall, ovvero la ricostruzione post bellica dell’Occidente. Prevaleva un clima in cui sembrava imminente l’aggressione all’Europa da parte della Russia Sovietica. Questa ipotesi coinvolse alcune tendenze comuniste rivoluzionarie, come la Gauche Communiste de France[2],«Socialisme ou Barbarie», soprattutto per opera di Cornelius Castoriadis[3]e, seppur marginalmente, la tendenza rappresentata da Onorato Damen in seno al Partito Comunista Internazionalista («Battaglia Comunista»). Le loro elaborazioni avevano come principale riferimento la ferrea dittatura instaurata dal regime sovietico, dalla quale facevano discendere prima l’ipotesi di un imminente conflitto tra Usa e Urss, poi la prospettiva diun’evoluzione del modo di produzione capitalistico nel senso collettivista,inaugurato dall’Unione Sovietica «stalinizzata». Questa concezione aveva acquistato notorietà grazie al libro di James Burnham "La rivoluzione dei tecnici", pubblicato negli Usa nel 1941 e in Italia nel 1946, ma era già serpeggiante in alcuni ambienti intellettuali e politici[4].Alla fine degli anni Cinquanta, anche Arrigo Cervetto[5],approdò a una prospettiva analoga, seppur centrando l’analisi su fattori economici(e non sovrastrutturali, come Castoriadis), facendo così proprie alcune tesi allora avanzate da Damen[6].E, in seguito, ne fece un punto fondante dell’orientamento teorico del gruppo Lotta Comunista, caratterizzato dalla sopravalutazione del capitalismo sovietico. I cui limiti furono, invece, ben evidenziati, fin dall’origine, da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista Internazionalista («il programma comunista»),ed ebbero un’eclatante conferma a posteriori, con il «crollo del muro» (1989)[7].


Sostanzialmente, Cervetto si lasciò abbagliare dalle elucubrazioni degli intellettuali francesi, che enfatizzavano le apparenze «stataliste», allora prevalenti in Unione Sovietica, che erano emergenti in Europa, con le politiche keynesiane di ricostruzione, e che si diffondevano nei Paesi di nuova industrializzazione (in primis Cina e India).Ed è questo il nodo centrale su cui sviluppare una valutazione dell’esperienza politica di Lorenzo Parodi.


Un’immagine statica della realtà sociale


Il background teorico di Parodi, cui abbiamo accennato, si sposò con l’arena delsuo intervento politico e sindacale: Genova e l’Ansaldo Meccanica, dove egli lavorò per quasi 40 anni, fino a quando andò in pensione, nel 1981. Genova era il centro portante dell’industria di Stato, con la siderurgia, la cantieristica, la meccanica pesante, l’impiantistica e l’elettronica civile e militare, in cui Cervetto e Parodi individuavano il modello di sviluppo del capitalismo italiano[8].Modello che divenne il criterio chiave per analizzare e definire la struttura economica e sociale italiana, delineando uno scenario apparentemente ricco di sfumature sociologiche, nonché politologiche, ma sostanzialmente assai rigido.


A questo schema interpretativo, venivano infatti ricondotte tutte le diverse «variabili», a partire dalla crisi che, all’inizio degli anni Settanta, colpì l’economia mondiale, le cui conseguenze, in l’Italia, furono definite in modo assai generico: prima «crisi di squilibrio» (tra la struttura economica in evoluzione e la sovrastruttura politica superata) e poi «crisi di ristrutturazione». Confondendo l’effetto con la causa.


Tale schema interpretativo ha dettato una prassi politica e sindacale imperniata su unm ovimento operaio, in cui prevale una figura operaia che è, e che resta, puro «capitale variabile»; sostenendo così una concezione che non solo affonda le sue radici in un’epoca ormai trascorsa, ma che priva l’operaio di ogni autonomia e progettualità politica. Dall’orizzonte di Parodi, come di Cervetto,sono assenti i grandi movimenti sociali, che attraversavano e scuotevano la società italiana, rivelando una miopia che, divenuta virtù, ne ha via via limitato la crescita politica, a vantaggio di una propaganda scolastica. Loro referente è la vecchia aristocrazia operaia, cresciuta all’ombra di un’industria di Stato, che stava facendo il suo tempo[9],e il cui declino avrebbe contribuito a spingere il gruppo in una logica squisitamente autoreferenziale, cadendo nella coazione a ripetere le esperienze di un remoto passato (la Russia di Lenin) e, implicitamente, nell’accettazione consolatoria dell’esistente.


Manca la volontà e la capacità di proporre il cambiamento, ovvero un processo rivoluzionario che esca dalle secche dell’economicismo, e di cui il proletariato sial’artefice. E non un passivo strumento di soluzioni imposte dalle forze produttive e, quindi, dalle classi dominanti. Sul piano analitico, ne derivano sbandate imbarazzanti, che divennero palesi quando, sull’onda dell’«autunno caldo», nei primi anni Settanta, Parodi e Cervetto parlarono di un «1905 economico» (con riferimento alla prima rivoluzione russa, quella del 1905), ritenendo che la convergenza tra movimento sindacale tradeunionista e la «linea riformistad el grande capitale» avrebbe potuto scalzare o indebolire «l’influenza interclassista dei partiti parlamentari, con potenziale vantaggio per il partito leninista». Ipotesi fantasiosa. Sarebbe stata valida nella fase ottocentesca di sviluppo delle forze produttive. Ma era del tutto estemporanea negli anni Settanta del Novecento, alle soglie di una crisi che si stari velando sistemica.


Prigioniero di queste concezioni, Lorenzo Parodi non è andato oltre a un’onesta attività sindacale, condita con qualche sprazzo di radicalismo, senza mai uscire da una posizione subalterna (ancorché «critica») ai vertici confederali. Con conseguenze spesso deleterie.


Ci ha lasciato numerosi scritti: le vivaci Cronache operaie, corrispondenze operaie degli anni Cinquanta, cui fecero seguito analisi sul sindacato e, dagli anni Ottanta, impegnativi studi sullo sviluppo del capitalismo italiano e su altri aspetti della vita economica, che ci offrono grandi affreschi, assai dettagliati, che tuttavia non scorgono ciò che ribolle sotto la superficie, ovvero l’insorgenza proletaria.


Fortunata,fu la vita di Lorenzo Parodi. Fortunata perchè coincise con una fase di impetuoso sviluppo del capitale, con favorevoli ricadute sul proletariato – ma che resta unica ed eccezionale –, e che, certo, non ha visto uno sviluppo altrettanto impetuoso della lotta di classe, almeno in Occidente. E questa situazione ambigua si riflette nei limiti e nelle contraddizioni dell’esperienza politica e intellettuale di Parodi, cui incombe la responsabilità di aver contribuito alla creazione di un mostro «leninista».






[1] Anna E. Marsilii,Il movimento anarchico a Genova (1943-1950), Annexia Edizioni, Genova, s. d. (2004), pp. 42-43.
[2] La Gauche Communiste de France sorse i verso la fine della Seconda guerra mondiale per iniziativa di alcuni militanti vicini alla Sinistra comunista italiana, tra cui Marc Chirik.Strinse contatti con il Partito Comunista Internazionalista, fondato in Italia nel 1943. Tuttavia, fin dai primi contatti, sorsero divergenze, che in seguitosi si acuirono, soprattutto riguardo all’evoluzione dei rapporti interimperialistici, in quanto Chirik riteneva imminente lo scoppio della Terza guerra mondiale, con la conseguente invasione sovietica dell’Europa. Con questa previsione, nel 1952, la GCF si sciolse.
[3]Cfr. Cornelius Castoriadis, La società burocratica, 1. I rapporti di produzione in Russia,SugarCo, Milano, l978 e La società burocratica, 2. La rivoluzione contro la burocrazia, SugarCo, Milano, l979. Per la critica bordighiana alle tesi sul capitalismo di Stato di «Socialisme ou Barbarie» e di Castoriadis,cfr. La batracomiomachia, «il programma comunista», a. II, n.10, 21 maggio - 4 giugnio 1953; Gracidamento della prassi, Ibidem, a.II, n. 11, 12-26 giugno 1953, Danza di fantocci: dalla Coscienza alla Cultura, Ibidem, a. II, n. 12, 25 giugno -8 luglio 1953. I tre articoli,presentati nella rubrica «Il filo del tempo», sono raccolti oggi in Partito Comunista Internazionale, Classe,Partito, Stato nella teoria marxista, Ed. il programma comunista, Milano, 1972.
[4]Cfr. Arturo Peregalli e Riccardo Tacchinardi, L’URSS e i teorici del capitalismo di stato. Un dibattito dimenticato e rimosso 1932-1955,Pantarei, Milano, 201, Cap. V, La burocrazia: una nuova classe [Nella prima edizione – Lacaita, Manduria, 1990 – il titolo finiva con un punto interrogativo, che è stato tolto dai curatori di Pantarei, longa manus di Lotta Comunista].
[5] Cfr. Arrigo Cervetto, Il ciclo politico del capitalismo di Stato, Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1989. Cervetto considera la tendenza alla formazione del capitalismo di Stato intrinseca allo sviluppo del modo di produzione capitalistico e lo «stalinismo» come movimento politico fautore di quella specifica forma giuridica di proprietà.
[6] Cfr. Giorgio Amico - Yurii Colombo, Uncomunista senza rivoluzione. Arrigo Cervetto: dall’anarchismo a Lotta Comunista. Appunti per una biografia politica, In appendice: FrancoAstengo: Gli ultimi decenni della Savona operaia. Massari Editore, Bolsena, 2005, pp. 68-69.
[7] Cfr. Dino Erba,Il mito della potenza sovietica. Un grande inganno ai danni dei proletari dell’Est e dell’Ovest, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2009.
[8] Arrigo Cervetto,Genova, punta avanzata della strategia rivoluzionaria, «Lotta Comunista», ottobre-novembre 1966.
[9] Il declino dell’industria di Stato a Genova si trascinava dal dopo guerra. All’inizio degli anni Settanta, la composizione della classe operaia vedeva la netta prevalenza di operai specializzati equalificati (il 65,7%), rispetto al 55,2% di Milano e al 43,6% di Torino. Cfr. Claudio [Saccani], La decadenza industriale di Genova e i suoi riflessi sull’occupazione, «Lotte Operaie», n. 44, dicembre 1971, p. 3.
 
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mannoio
view post Posted on 31/10/2011, 12:56




Qualcuno si è accorto che era una critica di Dino Erba. E come sua possibilità di scelta aveva deciso di eliminarlo. Ma "per fortuna c'è la torre di guardia mm81. Ovviamente era stato eliminato perchè non era questa la richiesta di N-Z -" Non parlo neppure della "correttezza della Torre di Guardia perché ha agito come è suo solito fare. Ne sto a polemizzare per 'ì'uso che fa della sua "stra-ordinaria intelligenza superata solo dal suo acume , dalla sua attenzione particolare, dalla sua curiosità, dalla sua pre- parazione, dalla vigile scolta, dalla sua "particolare attenzione", dal suo impegno politico e dal suo politico impegno, dall'ardire e dall'ardore, dalla simpatia che dimostra e dal dono dell ubiquità .Polemizzare con lui è impossibile perché se la Ragione avesse mai potuto personificarsi, avrebbe scelto Lui corpo e" MENTE". Chiedo scusa per l'errore mio da Lui svelato.
 
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mm81
view post Posted on 31/10/2011, 14:09




Ora è colpa mia se agisci in maniera pressaposchista? Va bene.
Queste sviste clamorose sono il precipitato di una tendenza generale che impartisce la setta di comitati falsamente leninisti. Non si torna mai sulle questioni fondamentali del movimento operaio (rapporti del partito con gli organismi economici del proletariato; rapporti di tattica e strategia; ecc.) perchè li si dà per assodati, si dice che ci ha "già pensato Lenin". I problemi però rimangono e quelle soluzioni classiche, siccome non assimilate, vengono smarrite e necessariamente si usano le soluzioni spontanee, cioè quelle della classe dominante.
E' un modo sbrigativo di affrontare le questioni che attanaglia Lotta Comunista. Ogni sforzo nello studiare le svolte storiche del movimento comunista è bollato come intellettualume.
Il pressapochismo invade anche queste piccole cose: si legge distrattamente un articolo, si è abbagliati dal titolo altisonante e lo si spara in prima pagina. Il risultato è una gaffe incredibile.

Il mio metodo è il solito: non escludo nessun metodo partendo da canoni estetici se quel mezzo permette di smascherare il nemico di classe (Lenin). Tutto il resto del tuo intervento è un esercizio (pessimo e scolastico) di poetica. Bisogna studiare anche per diventare poeti, insomma.
 
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mannoio
view post Posted on 31/10/2011, 14:28




Al solito tutto troppo preciso, tutto troppo perfetto , tutto troppo ineccepibile, tutto troppo. Una domanda marginale : Che cazzo c'entra la vita e la morte del sindacalista e dirigente comunista Lorenzo Pardi unanimemente riconosciuto come uno dei pochi Operai teorici dei tempi nostri?
CITAZIONE
Il mio metodo è il solito: non escludo nessun metodo partendo da canoni estetici se quel mezzo permette di smascherare il nemico di classe (Lenin). Tutto il resto del tuo intervento è un esercizio (pessimo e scolastico) di poetica. Bisogna studiare anche per diventare poeti, insomma.

Il tuo spartito è sempre perfetto, ma la musica che ne esce è fuori tempo e fuori ritmo. Tu dirigi una ipotetica orchestra che suona contemporaneamente cinque spartiti totalmente diversi . La baraonda che ne viene fuori è comprensibile solo a te e a due miei amici di Barcellona Pozzo di gotto. Bisogna studiare anche per diventare direttori d'orchestra Questa ammetto è una piccola polemica alla mm81.
 
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nostalgico2
view post Posted on 1/11/2011, 23:43




mannoio:
CITAZIONE
unanimemente riconosciuto come uno dei pochi Operai teorici dei tempi nostri?

Ma da chi?? Da voi!
Già, tipico della visione lottacomunistocentrica…

Dall’articolo commemorativo su lotta comunista
CITAZIONE
In quel vertice della CGIL, quella di Parodi fu l’unica voce internazionalista a levarsi contro la repressione staliniana

Falso che solo Parodi, in Cgil (ma, si lascia intendere, in generale) abbia contestato l’intervento sovietico in Ungheria, altra cosa che tu e gli altri di Lc, appunto nel coccodrillo a lui dedicato, sbandierate e sostenete, con evidente mancanza di senso del ridicolo.
Mai sentito parlare del “Manifesto dei 101”?
Basta dare anche solo un’occhiata a Wikipedia, che peraltro rimanda anche a questo articolo:

CITAZIONE
di Emilio Carnevali, da MicroMega 9/2006
"Il 29 ottobre del 1956, pochi giorni dopo il primo intervento militare sovietico a Budapest, il dissenso all’interno del Partito comunista italiano si manifestò in maniera clamorosa in un appello di solidarietà agli insorti ungheresi firmato da un centinaio di personalità (1), in gran parte intellettuali romani, fra cui 11 fra professori ordinari, incaricati e liberi docenti di università, dodici assistenti e numerosi studenti iscritti al circolo universitario della capitale. Il «Manifesto dei 101» conteneva una severa condanna della posizione ufficiale del partito sui moti di Ungheria, ma le questioni complessivamente sollevate rimandavano ad un dibattito ancor più ampio divampato nel Partito comunista italiano sin dalla primavera precedente (il XX Congresso del Pcus si era svolto a Mosca dal 14 al 25 febbraio).

Mario Pirani – che in quel periodo era redattore dell’edizione romana dell’Unità – ricostruisce così (in un’intervista rilasciata ad Adriano Ardovino) il contesto nel quale l’insurrezione di Budapest assunse la funzione di un vero e proprio elemento deflagrante: «Nel partito c’era in quegli anni una discussione, magari velata e che filtrava poco al di fuori, ma molto vivace su una serie di questioni. L’articolazione interna era molto avanzata e vi erano molti nodi, dalle questioni sindacali all’interpretazione del capitalismo italiano, alla politica economica, su cui si fronteggiavano linee molto diverse, talvolta variamente intrecciate fra di loro. Io per esempio, pur essendo allora su posizioni che potremmo definire di “revisionismo di destra”, quando ci fu il defenestramento di Secchia e ci fu l’assemblea della cellula del Comitato centrale, feci un intervento a favore di Secchia dicendo che nella struttura interna di partito lui era molto più democratico di tanti altri. Ricordo – io stavo nella Commissione organizzazione guidata proprio da Secchia – che la discussione era estremamente vivace e libera, anche se naturalmente si ricompattava quando prendeva la forma di una presa di posizione pubblica. L’Ungheria rappresentò – per così dire – il precipitato chimico di tutto questo processo. La definizione della natura della rivolta come una “controrivoluzione delle forze reazionarie” fu il modo usato da Togliatti e dalla direzione del partito per troncare la discussione».

All’Università di Roma la polemica con la direzione del Partito aveva cominciato a manifestarsi già alla fine di marzo, quando il circolo universitario aveva stilato un documento in cui si esprimeva una «vivace critica […] al modo, del tutto inadeguato, in cui la stampa quotidiana del partito, cioè l’Unità, ha informato i compagni sugli importanti avvenimenti di questo [XX] Congresso […] lasciando i compagni completamente disorientati dinnanzi agli attacchi perfidi e disonesti della stampa avversaria» (2). La progressiva crescita dei segnali di disagio e di dissenso costrinse la Federazione romana a convocare un’assemblea a fine giugno per cercare di difendere la linea del partito alla presenza di un centinaio di intellettuali, fra cui molti dei futuri firmatari del «Manifesto» (Spriano, Cafagna, Muscetta, Melograni, Aymonino, Moroni, e altri). Per il Pci parteciparono il deputato Aldo Natoli, il segretario della federazione romana Otello Nannuzzi, il responsabile della commissione culturale centrale Mario Alicata e quello della commissione romana Giovanni Berlinguer. Vi furono interventi molto polemici, ma lo stesso Togliatti dirà pochi giorni dopo di aver letto «i verbali di quella riunione di intellettuali che si è tenuta a Roma» e di non trovarvi nulla «di terribile né di scandaloso», sebbene si senta in quel dibattito «più lo sfogo che la discussione ordinata» (3).

Gli avvenimenti dell’estate – la replica sovietica all’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti e la repressione della sommossa nella città polacca di Poznan´ – segnarono però una discontinuità rispetto alla politica di confronto che fino a quel momento la direzione del Partito aveva cercato di mantenere con i settori più «dubbiosi» dell’intellettualità comunista.
Episodio significativo di questa svolta è la durissima polemica che contrappose Togliatti a Fabrizio Onofri, allora membro del Comitato centrale e vicepresidente della commissione (presieduta da Scoccimarro) incaricata di elaborare la dichiarazione programmatica per l’VIII congresso. Il numero di luglio di Rinascita conteneva un lungo intervento (sotto il titolo redazionale di «Un inammissibile attacco alla politica del Partito comunista italiano») in cui Onofri criticava numerosi aspetti della politica del Pci dal 1947 in poi, ricorrendo a termini espliciti quali «degenerazione», «opportunismo», «burocratizzazione». Scriveva Onofri con riferimento agli episodi più recenti della vita del partito: «Soprattutto deve far pensare il fatto che, ancora oggi, dopo il XX Congresso e tutto ciò ch’esso ha “liberato” e sta portando alla luce nel nostro Partito, non vi sia affatto, da parte delle istanze che hanno accentrato tutto il potere politico in questi anni, la dimostrata volontà di cambiar strada».

La replica di Togliatti – contenuta in un articolo intitolato «La realtà dei fatti e la nostra azione rintuzza l’irresponsabile disfattismo» e pubblicato sullo stesso numero della rivista – fu durissima. Il segretario del partito accusò Onofri «di abbandonarsi ad “aberrazioni” ed “escandescenze”, di usare “espressioni generiche”, “formule astratte” e “schemi morti”, di fare della via italiana al socialismo “un incubo mitico, un fiabesco feticcio” tale da ispirargli un “meschino disfattismo” spingendolo a “sconclusionate elucubrazioni”; in una parola, di avere la “polenta” in testa. Pur trascurando “la confutazione delle sciocchezze, delle incongruenze e dei pettegolezzi marginali” contenuti nell’“informe abracadabra” del “compagno Onofri”, il segretario del Pci gli ricorda che “raccogliere l’immondizia dalle mani del nemico è sempre operazione poco pulita”» (4).

Il «caso Onofri» fu al centro di un acceso dibattito all’interno del partito. Il 6 settembre fu convocata un’assemblea all’università di Roma cui parteciparono, oltre a studenti e docenti, anche numerosi iscritti delle sezioni «di strada» della capitale. Frutto di quella riunione fu una lettera di protesta indirizzata direttamente a Palmiro Togliatti in quanto direttore di Rinascita (la lettera – la cui bozza fu approvata all’unanimità dalla platea nonostante il parere contrario dell’inviato della federazione Giovanni Berlinguer – non fu mai pubblicata). Si leggeva nel testo: «Il modo in cui il dibattito è sembrato orientarsi nelle ultime settimane è per noi motivo di seria preoccupazione, per il fatto che da parte di autorevoli dirigenti del partito è iniziato un tipo di intervento che tende a scoraggiare la larga ed aperta collaborazione di tutti i compagni alla elaborazione della linea stessa. L’episodio più grave in questo senso ci sembra la replica del compagno Togliatti al compagno Onofri sul n. 7 di Rinascita. A nostro parere non sono giusti il tono, il metodo, la violenza verbale, il rigetto sprezzante di tutte le critiche, dichiarate inammissibili, disfattiste, tratte dall’immondizia nemica eccetera, come pure il modo giornalisticamente non corretto di presentare lo scritto di un compagno» (5).

Un’altra assemblea – sotto la presidenza di Pietro Ingrao – si tenne all’università il 16 e il 17 settembre. Alberto Caracciolo – che a luglio era diventato responsabile del neonato Comitato di coordinamento fra il circolo studentesco e quello del personale universitario – intervenne denunciando il «giro di vite» impresso al dibattito dai vertici del partito: «In effetti non esiste alcuna deliberazione di nostre istanze dirigenti in questo senso», disse Caracciolo. «Però mi sono andato a rileggere la stampa, i discorsi, gli altri interventi del periodo luglio-agosto, e ne ho potuto trarre un complesso di documenti che, se anche li esaminassi per esempio in sede di ricerca storica anziché politica, mi basterebbero ampiamente per una conferma. E del resto come nasconderci che proprio noi, che viviamo qui a Roma, a due passi da via delle Botteghe Oscure, abbiamo tutti più o meno avuto delle occasioni per sentire voci autorevoli, seppure confidenziali, che ci spiegavano essere venuto il momento di dire alt a certe esagerazioni, di stringere i freni, e così via? Queste voci lo storico di domani non potrà registrarle, ma noi le abbiamo sentite, fanno parte della nostra esperienza politica reale» (6).

Il 23 ottobre, il giorno della grande manifestazione di Budapest presto trasformatasi in insurrezione popolare, il Comitato direttivo degli studenti composto da Tronti, D’Amelio, Cavari e Asor Rosa si recò all’ambasciata d’Ungheria a portare il seguente messaggio: «A nome di duecento studenti comunisti dell’università di Roma, salutiamo la vostra responsabile azione per il progresso della democrazia, della verità, della libertà nell’Ungheria socialista. Gli studenti progressivi italiani si batteranno sempre per gli stessi obiettivi, nel segno del vero internazionalismo e per una via italiana al socialismo» (7).

Pochi giorni dopo venne convocata un’assemblea generale straordinaria di studenti e personale universitario che approvò un documento di condanna dell’intervento sovietico e di appoggio alle posizioni di Nagy. La prima parte di questo documento – redatto da una commissione composta da Salinari, Colletti, Caracciolo e Melograni – verrà integralmente assorbita nel «Manifesto dei 101». Nel corso della stessa assemblea si approvò inoltre un ordine del giorno nel quale si auspicava che «le posizioni espresse nel documento pubblicato dalla segreteria della Confederazione nazionale del lavoro» venissero «fatte proprie dalla direzione del partito». La Cgil guidata da Di Vittorio aveva infatti diramato un comunicato in cui si leggeva: «La Segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia di una più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale» (8).
Nel frattempo il direttore di Società Carlo Muscetta aveva maturato l’idea di un documento anch’esso critico nei confronti della direzione del partito in merito alle drammatiche vicende ungheresi (non vi era stato ancora il secondo intervento sovietico).

Nel suo libro L’erranza, Muscetta riporta una lettera di Togliatti datata 27 ottobre con il quale il segretario del Pci tentava di dissuaderlo dall’iniziativa: «Ogni compagno ha il diritto, anzi il dovere, anche nei momenti più gravi, di esprimere, nella sua organizzazione, le sue preoccupazioni, i suoi timori, i suoi dubbi, ma l’iniziativa vostra aveva un carattere ben diverso, cioè tendeva, ove fosse riuscita, ad aprire una situazione critica, cioè ad aggiungere danno al danno che già stiamo subendo» (9).

Anche Giolitti ha raccontato un episodio significativo che precedette l’uscita pubblica del documento: «In quei frangenti Giancarlo Pajetta convocò me e Aldo Natoli alle Botteghe Oscure perché voleva da noi notizie su quella lettera che, si diceva, un gruppo di intellettuali nostri amici stava preparando. Prese l’argomento molto alla larga. Ricordo che cominciò con la domanda, sorniona: “Che succede a Roma?”. Stavamo arrivando lentamente al dunque quando si spalancò la porta e vedemmo apparire Giorgio Amendola che rosso in volto, furioso, si rivolse urlando a Natoli e a me “Traditori! Avete sbagliato partito, dovevate iscrivervi al partito liberale”. Natoli che era sì un innovatore, ma non aveva niente a che spartire con la “lettera dei 101”, gridò contro Amendola: “Non hai nessun diritto di trattarmi così!” e uscì sbattendo la porta» (10).

Nella notte fra il 28 ed il 29 ottobre 1956 venne redatto il «Manifesto». Lucio Colletti ha così raccontato le fasi di stesura del testo: «Fui io a rivedere la bozza di quello che si chiamerà poi il “Manifesto dei 101”. Lo buttai giù in fretta, sul tavolo da cucina di casa Cafagna [a palazzo Doria, in via del Plebiscito]. Poi la versione finale fu elaborata in casa di Giuliana Bretoni» (11). Lì «c’era Natalino Spegno, Carlo Muscetta, Gaetano Trombatore e un gruppo di architetti, tra cui Aymonino» (12).
Secondo la ricostruzione di Giuliana D’Amelio «un dissenso si manifestò fra chi voleva senz’altro portare il documento a tutta la stampa; chi voleva riservarlo ancora una volta solo all’Unità; e chi voleva porre la condizione, più o meno ultimativa, che se l’organo del Pci avesse tardato a rendere pubblico quel documento, allora ci si sarebbe rivolti ad altri giornali» (13).
La posizione che prevalse fu sintetizzata in un poscritto al documento: «Si fa presente al Cc del Partito, con tutta la responsabilità che questo fatto comporta, che qualora non si avesse notizia al più presto che sull’Unità verrà pubblicato questo documento, i compagni firmatari saranno costretti a rivolgersi agli altri membri del Partito, alle sezioni, alle cellule, perché si verifichi egualmente quella larga pubblicità che è oggi divenuta indispensabile per una completa chiarezza di posizione».

Il mattino dopo le firme vengono per lo più raccolte da Giuliana Bertone, allora segretaria di redazione di Società, nella sede romana della casa editrice Einaudi dove c’era la redazione della rivista.
Nel pomeriggio del 29 il documento fu portato sia alla sede del Comitato centrale del Pci, sia all’Unità. Fu Colletti che, insieme ad Alberto Caracciolo, si recò alla sede dell’Unità in via IV novembre: «Fummo ricevuti da Pajetta con il quale avemmo una conversazione piuttosto animata. “Mancate di realismo”, ci disse, “il mondo è diviso in due blocchi… forse non sapevate che l’Estonia, la Lituania e la Lettonia sono occupate dai russi?”. In quel momento entrò un redattore dell’Unitàcon in mano un foglio dell’Ansa che riportava per intero il nostro documento. Cos’era accaduto?» (14).

Luciano Cafagna ha dichiarato, in un’intervista con l’autore di questo articolo, che lui e Muscetta erano d’accordo fin dall’inizio per dare una larga diffusione al documento. Secondo Cafagna (ed anche secondo lo stesso Colletti) (15) fu dunque Muscetta a portare alle agenzie il testo del documento. Probabilmente, però, l’iniziativa avvenne parallelamente a quella presa da Sergio Bertelli, che ha rivendicato la paternità del gesto: «Dopo aver scritto il “Manifesto” in casa di Giuliana Bertone (io scrivevo a macchina e accanto a me c’erano Carlo Muscetta e Lucio Colletti; abbiamo corretto, riveduto e modificato la lettera fino all’una di notte passata), facemmo il giuramento di non far trapelare la notizia al di fuori del partito, ma, come tutte le congiure… Come io e mio fratello uscimmo dalla riunione, filiamo all’Ansa e consegniamo il testo del “Manifesto”» (16). La possibilità di questa duplice fuga di notizie avvenuta in contemporanea è per altro confermata da Cafagna.

Sin dalla sera del 29 fu avviata la controffensiva del partito presso la federazione romana di S. Andrea della Valle «dove i firmatari del documento venivano chiamati, accusati, replicavano e si spiegavano. Era un modo di dimostrarsi tolleranti, di dare uno sfogo apparente al malcontento, che serviva ad isolare questi compagni da quelli delle sezioni e dalla base popolare, che nel frattempo veniva ripresa in pugno più saldamente e non di rado indirizzata contro il “tradimento” degli intellettuali» (17). Paolo Spriano – il giorno dopo la pubblicazione del documento e dopo essere stato convocato nella sede dell’Unitàdove Ingrao e Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, lo rimproverarono per aver aderito alla protesta (18) – scrisse una lettera a Togliatti sia per confermare la «fiducia nella direzione del partito e in lui personalmente», sia «per precisare» il suo «dissenso» (19).

La risposta di Togliatti è contenuta in una lettera datata 31 ottobre in cui il segretario del Pci – dopo aver ringraziato Spriano per la sua lettera e «per il contenuto e per lo spirito di partito che la pervade» – scrive: «Purtroppo, vi sono compagni che non comprendono come queste nostre posizioni, e quindi la linea da noi seguita, siano dettate dalla esperienza sicura della lotta di classe. Questi compagni avevano dunque bisogno, per convincersi, di leggere ciò che si legge oggi nei giornali, cioè che in Ungheria si è cominciato il pogrom anticomunista? Se questi compagni avessero saputo tenere i nervi a posto e non perdere la fiducia nel loro partito, avrebbero fatto meglio» (20).

Il 30 ottobre l’Unità pubblica una lettera firmata da Aymonino, Del Guercio, Bertone, Cafagna, Di Cagno, Malatesta, Martelli, Petri, Puccini, Romano, Socrate, Spriano, Vespignani e Vittoria. Si legge nella lettera: «Poche ore dopo che abbiamo apposto la nostra firma in calce [al “Manifesto dei 101”], vediamo che un’agenzia borghese di informazione è in possesso del testo della dichiarazione. Questo fatto indica che chi ha fornito il documento a questa fonte ha sorpreso la nostra buona fede. L’episodio costituisce un’amara esperienza per coloro, come i sottoscritti, che tengono al loro onore di militanti comunisti e all’unità del Partito, al quale sono legati attraverso la lotta che nelle loro file hanno combattuto per la libertà e la democrazia e che sono fermamente convinti di poter rafforzare e rinnovare nell’ambito della sua democrazia interna». Analoghe lettere vennero pubblicate sempre dall’Unità nei giorni successivi. Scrive ad esempio Gaspare Campagna: «Mi accorgo ora che i sospetti che io ebbi, nel corso della discussione, di una certa acre irrequietezza in taluni giovani compagni non erano infondati e assai mi duole che sia stata carpita la buona fede mia e di altri compagni, quali Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore – miei vecchi amici – in compagnia dei quali, io che non sto a Roma e nulla sapevo, mi ero recato alla riunione» (21). Quasi tutti i firmatari condannarono dunque l’utilizzo del documento in un ambito esterno rispetto a quello del dibattito pre-congressuale e dei «nostri organi di stampa» (una lettera con oltre sessanta firme viene pubblicata sull’Unità il 3 novembre sotto il titolo «Isolato il tentativo di spostare il dibattito sul terreno frazionistico»).

Peraltro il «Manifesto dei 101» non fu mai pubblicato sull’Unità. Nel corso della direzione del 30 ottobre Ingrao e Berlinguer presero posizione a favore della pubblicazione, mentre Giancarlo Pajetta e Togliatti furono contrari.
Rispetto alla possibilità che iniziative come quella dei «101» potessero registrare un consenso di massa all’interno del partito, Paolo Spriano ha dichiarato: «La verità – che poi si tenderà a dimenticare, di quell’indimenticabile anno – è che la base di classe del Pci, il suo fondo popolare reagirà […] in modo quasi diametralmente opposto a quello degli intellettuali della sinistra, nel loro complesso; in modo opposto a come questi ultimi ritengono debbano reagire gli operai comunisti. Si avrà un arroccamento intorno a Togliatti e al gruppo dirigente. Il clamore che i giornali borghesi fanno aiuterà a stringere le fila. Troppo repentinamente gli avversari erano diventati amici degli operai, esaltatori dei “consigli” nelle democrazie popolari, dopo averli avversati in patria» (22).
Eppure iniziative analoghe a quella di Roma ci furono in altre città come Torino, Pisa, Mantova, Perugia, sebbene mancò qualsiasi forma di coordinamento.

Il 26 ottobre, a Torino, la cellula aziendale dei dipendenti della casa editrice Einaudi approvò un ordine del giorno i cui si leggeva: «I compagni della cellula “Giame Pintor”, di fronte alle drammatiche notizie della Polonia e dell’Ungheria esprimono la convinzione che moti popolari di tale ampiezza non possano essere d’ispirazione di forze estranee alle classi lavoratrici, ma nascono da un profondo disagio del popolo per lo snaturamento degli ideali e dei fini della rivoluzione e per la colpevole lentezza con cui i partiti comunisti di quei Paesi, pur essendo ormai chiari gli errori commessi, hanno proceduto sulla via di un sincero e profondo rinnovamento del Partito e del Paese. Respingono pertanto l’interpretazione calunniosa che fu data ieri ai fatti di Poznan´ e quella ambigua e deformante che si continua a dare oggi sull’Unità ai tragici fatti di Budapest» (23).

A Pisa venne approvato un documento contenente la seguente mozione: «I compagni studenti e universitari, i compagni intellettuali e della Fgci riuniti i giorni 26 e 27 ottobre ritengono necessario porre l’attenzione del Partito e del movimento operaio internazionale anche sul fatto che non è dissociabile la responsabilità del gruppo dirigente del Partito comunista ungherese da quelle dell’attuale gruppo dirigente del Pcus. La lentezza, le esitazioni che esso ha manifestato dopo il XX Congresso ed in particolare dopo i fatti di Poznan´, la tendenza che esso ha dimostrato a non escludere la possibilità di un intervento armato delle truppe dell’Urss, sono sintomi di un atteggiamento politico poco coraggioso, che fa correre ai dirigenti sovietici il pericolo di rimanere superati dagli avvenimenti. Del resto una prova di queste esitazioni e di questa paura ad affrontare con decisione tutte le conseguenze di democratizzazione è data dalla volontà di condurre ancora la discussione politica all’interno del paese e sul piano internazionale entro gruppi ristretti e non in forme accessibili chiaramente all’opinione pubblica. Per questo si ritiene necessario invitare con forza la direzione del Pci ad assumere un atteggiamento più chiaramente autonomo e critico nei confronti della politica condotta dal gruppo dirigente del Pcus in questi ultimi mesi» (24).

A Perugia fu invece preparato un manifesto murale, recante in calce la firma «gli studenti comunisti», che così si apriva: «Colleghi, compagni e cittadini! I tragici avvenimenti che hanno insanguinato la nobile repubblica ungherese feriscono in primo luogo noi, studenti militanti nel Pci, nel profondo dei nostri sentimenti. Noi siamo convinti che in Ungheria sia accaduto qualche cosa di identico ai fatti di Poznan´: non un movimento controrivoluzionario, cioè, ma una rivolta contro la tirannide e la burocrazia. Gli errori e i crimini di una parte della classe dirigente hanno provocato una tale lacerazione in seno al popolo ungherese, da costringerlo ad affrontare ancora una volta la lotta per realizzare due rivendicazioni tradizionali della classe operaia, degli studenti e dei lavoratori tutti: la democrazia nel socialismo e l’indipendenza nazionale» (25).
Sandro Curzi ha così ricostruito, intervistato da Adriano Ardovino, il dissenso maturato in quei giorni in seno alla Fgci: «Noi giovani comunisti italiani, che proprio in quell’anno lavoravamo alla preparazione di un nostro giornale, uscimmo, per l’incalzare degli eventi, con il primo numero di Nuova generazione, anticipando la data stabilita, interamente dedicato ai fatti d’Ungheria, di Polonia e dell’Egitto». «Quel numero uno allora suscitò scandalo e molte federazioni si rifiutarono di diffonderlo». Eppure la posizione assunta dalla rivista era più sfumata rispetto a quella dei 101: «Nuova generazione non definiva la situazione ungherese né una rivoluzione (tesi dei 101) né una controrivoluzione (tesi della direzione del Pci) ma una tragedia. Nell’editoriale scritto dal giovanissimo Achille Occhetto si leggeva: “All’insurrezione di Budapest partecipa una grande parte del proletariato. È un fatto”». «Sempre quel primo numero», ricorda Curzi, «pubblicava una serie di documenti votati da federazioni e circoli della gioventù comunista italiana, che apertamente dissentivano dalla posizione ufficiale del Pci di giustificazione dell’intervento sovietico».

«Voglio però ricordare», aggiunge Curzi, «e non certo per coprire la responsabilità di Togliatti, ma per rispetto della storia, che le critiche di revisionismo sollevate contro la posizione autonoma assunta dal nostro giornale furono respinte personalmente proprio da Togliatti. Infatti alla richiesta avanzata da alcuni compagni della segreteria del partito (Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta) di provvedimenti disciplinari nei nostri confronti, Togliatti non dette risposta. Nuova generazione proseguì nel suo lavoro».
Estremamente critica era la situazione anche alla sede dell’edizione milanese dell’Unità. L’allora direttore Davide Lajolo ha così raccontato la sera del primo intervento sovietico: «Arrivarono decine di telegrammi dalle federazioni lombarde in rivolta. Vennero in redazione Rossana Rossanda, Giangiacomo Feltrinelli e vari altri. Portavano un comunicato contro l’Unione Sovietica e volevano imporne la pubblicazione. Feltrinelli alzò anche un po’ la voce. Li mandai via, e nello stesso modo mi comportai anche con Achille Occhetto che, con un gruppo di giovani, mi portò un altro comunicato contro l’Urss» (26).
Achille Occhetto era stato appena eletto segretario del circolo universitario milanese: «L’indimenticabile e tragico ’56», racconta Occhetto (intervista rilasciata ad Adriano Ardovino), «fu caratterizzato da una formidabile tensione contraddittoria fra diversi sentimenti. Per la prima volta si espresse con una certa irruenza il pensiero critico di una generazione, un pensiero critico non più rivolto solo verso gli avversari, ma anche nei confronti della propria parte politica.

Del resto ricordo benissimo l’alternarsi delle notizie, il sacrificio dei rivoltosi, la brutalità di quello che veniva chiamato il “terrore bianco”: tutto ciò contribuiva a creare questa tensione contraddittoria di sentimenti contrapposti. Con questo stato d’animo stilammo il documento che portai a Lajolo, ma che non fu mai pubblicato. In quei giorni noi stavamo a difendere la sede della federazione milanese del partito. C’era una canea fascista: ci tiravano le pietre e noi gliele rilanciavamo indietro dalla grande scalinata che c’era davanti alla sede della federazione. Mi ricordo che combattevo questa battaglia con le lacrime agli occhi e il groppo in gola; fianco a fianco degli stalinisti; insultando gli stalinisti, ma nello steso tempo combattendo con loro. Li insultavo perchè in fondo sentivo già allora che c’era qualche cosa che stava sporcando l’ideale socialista e che quindi c’era una responsabilità storica antisocialista nello stalinismo. Era la prima volta che sentivo che non bisognava accettare il ricatto unitario. In quel momento non c’è dubbio che il gruppo dirigente del Pci invocò la parola “unità” per nascondere la verità. Per questo motivo sentivamo certamente il dovere di non indietreggiare dinnanzi alla destra, ma cominciammo a rifiutarci di utilizzare l’alibi del “terrore bianco” per giustificare coloro che avevano infangato gli ideali della sinistra. E così nacque l’articolo per Nuova generazione».

Sempre a Milano, presso la Casa della cultura, si svolse nei giorni successivi al secondo intervento sovietico un dibattito fra intellettuali organizzato da Mario Alicata. Così Rossana Rossanda ha ricordato quella serata: «Potevano essere le undici e mezza di sera. Tornavo da una riunione di sezione. Per raggiungere la sala bisognava scendere alcuni gradini: erano ingombri di gente che ascoltava. Fui colpita, nell’entrare, da una frase di Alicata: “… perché in questo momento l’esercito sovietico sta difendendo l’indipendenza dell’Ungheria”. Erano parole da far digrignare i denti, specie a chi come noi attraversava giornate angosciose, tra compagni sdegnati che invadevano la federazione e la stessa Casa della cultura, persone di ogni tipo che venivano ad insultarci, intellettuali che ci facevano la morale» (27).

Nella direzione del Pci del 30 ottobre si fa riferimento anche alle contestazioni provenienti da Modena, Piacenza, Pavia, Brescia, Padova, Venezia. La Camera del lavoro di Livorno proclamò uno sciopero di 15 minuti di solidarietà agli insorti ungheresi. Sebbene Secchia – sempre nella medesima riunione della direzione – dichiarò che «i compagni delle fabbriche non scrivono ordini del giorno ma vengono a difendere le sedi del partito, mentre gli studenti comunisti arrivano dopo a presentarci mozioni e proteste», molto frequenti furono le espressioni tipo quella di Pellegrini, secondo il quale «alla base vi è amarezza e sconforto» o di Colombi, che evidenziò un «turbamento grave nel partito».

Giorgio Amendola ha raccontato di un comizio che tenne la sera del 4 novembre a Torino, nel sotterraneo di piazza San Carlo «gremitissimo di operai». Amendola, alla vigilia del secondo intervento sovietico, disse di augurarsi che l’Urss avrebbe impedito il trionfo della «controrivoluzione» fornendo appoggio «anche militare» ai compagni ungheresi: «Ci fu un enorme, interminabile applauso. Ci furono anche molti dissensi. Mi ricordo che quando uscii, tra i compagni che mi applaudivano, incontrai il compagno e mio amico Italo Calvino, che mi espresse invece il suo dissenso gridando: “Viva Gomul´ka, Viva Gomul´ka!”». Amendola e Calvino si ritrovarono, poche ore dopo quel comizio, a casa di Luciano Barca, direttore dell’Unità torinese, dove cominciarono ad arrivare le notizie del secondo intervento sovietico. «Fra una telefonata e l’altra», ha raccontato Calvino, «continuavamo a discutere. Per anticiparmi quale sarebbe stato l’impegno del Pci nell’immediato futuro e i modi in cui a suo giudizio doveva affrontarli, Amendola faceva ricorso a considerazioni di metodo. “Guarda la Chiesa cattolica”, diceva. “Se ha resistito così a lungo è perché ha saputo graduare la propria evoluzione. Ha accolto i cambiamenti, ma poco per volta”. Il riferimento ai tempi millenari della Chiesa, in quel momento, accrebbe il mio scoraggiamento. Sentii cadermi le braccia» (28).

A Roma, nel corso del dibattito precongressuale, le posizioni maturate in ambiente universitario si trovavano in maggioranza in varie sezioni di quartiere (Mazzini, Esquilino, Campo Marzio, Monteverde Nuovo) ed erano fatte proprie da gruppi consistenti in altre (Macao, Italia, Salario, Ludovisi, Centocelle, Flaminio, Portonaccio, Appio Nuovo) (29).
Significativa è la testimonianza (intervista rilasciata all’autore di questo articolo) di uno dei firmatari del «Manifesto dei 101», Umberto Coldagelli, che allora era ancora studente universitario a Roma e si sarebbe laureato di lì a poco insieme ai suoi intimi amici Gaspare De Caro, Mario Tronti e Alberto Asor Rosa: «Io ero iscritto alla sezione San Saba (se non ricordo male fin dal 1953-54). Il campionario sociologico della mia sezione andava dai ferrovieri al Lumpenproletariat delle piccole borgate. Durante la discussione in vista dell’VIII Congresso io portavo, oltre alle mie riflessioni personali, anche – indirettamente – le istanze elaborate all’interno della sezione universitaria. E devo dire che ho trovato nel nucleo dirigente giovane un’adesione convinta, anche se molto sofferta. Ricordo che il confronto fu molto vivace: ero riuscito a portare in sezione Pietro Ingrao – che poi diventerà mio amico – e a farlo dibattere con Lucio Libertini. Quando si arrivò al congresso di sezione fu approvata una mozione che esprimeva tutta la nostra angoscia per quello che stava accadendo e tutte le nostre critiche su come la direzione del partito aveva gestito questo passaggio catastrofico. Sulla base di questa mozione io sono stato eletto segretario della sezione. E sono stato designato come delegato al congresso provinciale. Ma il compagno della federazione che era venuto al nostro congresso – francamente non ne ricordo il nome – aveva debitamente espresso la sua contrarietà alla mozione e successivamente la federazione ha praticamente considerato come “non avvenuta” l’elezione del nuovo comitato direttivo e quindi anche del segretario. Io ho reagito senza clamore, semplicemente non rinnovando la tessera dell’anno successivo.

Per quanto riguarda ciò che posso valutare alla luce della mia esperienza, il partito avrebbe potuto assumere una posizione meno rigida e trovare attorno ad essa un consenso maggioritario. La discriminante rispetto ai fermenti che andavano crescendo, almeno nella mia realtà, era di natura anagrafica piuttosto che di natura sociale, “di classe”. Erano i vecchi compagni della sezione ad essere contrari alla mozione, ma i giovani della sezione erano artigiani, operai, molti dei quali impegnati nell’industria edilizia. Forse un’altra politica era possibile»."

 
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mannoio
view post Posted on 2/11/2011, 02:32




CITAZIONE
A nome della componente libertaria dei Comitati di Difesa Sindacale, Parodi dal 1951 fu delegato nel Comitato provinciale della FIOM di Genova, e dal 1956 al 1958 membro del Comitato direttivo nazionale della CGIL. Proprio l’insurrezione ungherese testimonia il senso di una battaglia che era politica, prima che sindacale. Nel settembre del 1956, intervenuto in un direttivo nazionale dove «il clima si era fatto di gelo», Parodi aveva contestato a Giuseppe Di Vittorio la copertura ipocrita all’intervento dell’URSS, denunciando in nome dell’internazionalismo proletario il massacro degli operai di Budapest, l’imperialismo di Mosca e il capitalismo di Stato russo. In quel vertice della CGIL, quella di Parodi fu l’unica voce internazionalista a levarsi contro la repressione staliniana: molto più di una testimonianza, perché quell’esempio restò un riferimento per la nuova generazione che di lì a poco sarebbe stata conquistata alla militanza leninista nel sindacato.

Questo quanto scritto sopra, per la precisione. [parte eliminata perchè conteneva una semplice, chiara e vecchia provocazione. "Mannoio", per l'ennesima volta l'amministrazione del forum ti invita ad evitare le provocazioni, così come si invitano gli altri utenti a non rispondere a tali provocazioni]

Edited by N-Z - 2/11/2011, 08:05
 
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mm81
view post Posted on 2/11/2011, 17:50




Quando si esaltano le persone, i grandi uomini, gli illustri cretini, è normale che si finisca per avere una concezione della storia non materialistica dialettica ma antropomorfizzata: si dà la precedenza al Duce.
Può ben darsi che in quel Direttivo del 1956 (ma siamo arrivati a tanto? A scandagliare i fossati pieni di melma per pescare le rane? Siamo arrivati a cercare "chi" ha detto "cosa" nella riunione vattelapesca?) sia stato il solo Parodi a protestare, e con ciò? Molti comunisti hanno protestato fuori della Cgil. Questo genere di amarcord finisce sempre con le beatificazioni del cretino (per quanto illustre) di turno. Un partito che avanza con queste noccioline si riduce agli "ha detto male di Garibaldi".

Un lavoro del Partito Comunista Internazionale sui grandi uomini. Il testo si trova in Il Programma Comunista, n° 7 del 1953 e fa parte della serie "Sul Filo del Tempo".

IL BATTILOCCHIO NELLA STORIA


In una citazione di Engels fatta recentemente a proposito della valutazione marxista della rivoluzione russa riportammo la frase: "il tempo dei popoli eletti è finito". È poco probabile che giungano da molte parti a spezzar lance per la opposta tesi, dopo la scalogna che ha portato al nazismo tedesco; ed anche dopo la sorte toccata agli ebrei che scontano malaccio la incredibile incocciatura razzista plurimillenaria: stritolati prima dalla mania ariana di Hitler, poi dall'affarismo imperiale britannico, oggi dall'inesorabile apparato sovietico - domani, molto probabilmente, dalla cosmopolita, tollerante a chiacchiere, politica statunitense, che si fece buoni denti sulla carne nera.
Molto più difficile sarà stabilire che è passato il tempo degli individui eletti, degli "uomini del destino" - come Shaw chiamò Napoleone, ma soprattutto per sfotterlo coll'esibirlo in tenuta da notte - in una parola dei grandi uomini, dei condottieri e capi storici, delle supreme Guide dell'umanità.
Da tutte le bande infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che - in misura assai più estesa che per il passato - non si possa fare a meno di esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè sospinto il merito intiero del successo della "causa", di cui trattasi.
Tutti concordano nell'attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e che si attendono, all'opera, e per essa alle personali qualità dei capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma concordano nel fare tutto pendere dall'esito di questa contesa, sia nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i grandi uomini in pensione - il bilancio dell'opera dei grandi uomini di recente messi in circolazione o tolti di mezzo conferma la teoria che sono cavatori di ragni dal buco.

IERI


Domande e risposte


Sono al riguardo interessanti le risposte di Federico Engels ai quesiti che gli furono posti su tale tema. Nella lettera del 25 gennaio 1894 parla dei grandi uomini il secondo comma della seconda domanda: ma sono ben poste entrambe.
Eccole.
1. Fino a qual punto le condizioni economiche influiscano causalmente (attenzione a non leggere casualmente).
2. Quale sia la parte rappresentata dal momento (se avessimo il testo credo potremmo meglio tradurre dal fattore) a) della razza; b) della individualità, nella concezione materialistica della storia di Marx e di Engels.
Ma interessa ugualmente la domanda cui rispondeva la precedente lettera del 21 settembre 1890: Come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio fondamentale del materialismo storico; se cioè, secondo loro, la produzione e riproduzione della vita reale siano esse sole il momento determinante, o soltanto la base fondamentale di tutte le altre condizioni.
La connessione tra i due punti: funzione della grande individualità nella storia e esatto legame tra condizioni economiche ed umana attività, è da Engels chiaramente spiegata nelle risposte, che egli modestamente afferma buttate giù in privato e non redatte con "quella esattezza" cui egli tendeva nello scrivere per il pubblico. Ed infatti egli si richiama alle trattazioni generali della concezione marxista storica che ha date nell' Antidühring (Parte I cap. 9 a 11, parte II cap. 2 a 4, parte III cap. 1) e soprattutto nel cristallino saggio su Feuerbach, del 1888. E quanto ad un esempio luminoso della specifica applicazione del metodo, rimanda al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che descrive a tempera bruciante colui che può essere preso come prototipo del "battilocchio" - termine che presto andiamo a spiegare.

Continuità di vita


A costo di una digressione, che è anche un anticipo di un Filo la cui chiglia maestra sta da qualche tempo sugli scali del cantiere, vogliamo dare un bel bravo all'ignoto studente che avanzò la domanda della prima lettera. Al solito quelli che non hanno capito niente sono quelli che si atteggiano ad aver acquisito e digerito, colla pretesa di essere in grado di eruttarlo fuori, e salivar sentenze. I più semplici e seriamente impostati, invece, sono sempre convinti di dover meglio intendere, quando già hanno tocchi da maestri. Il giovane e per fortuna non onorevole interrogante adopera infatti al posto della normale espressione "condizioni economiche" quella esatta e bene equivalente alla prima: "produzione e riproduzione della vita fisica". Come allievi della successiva classe, cambiamo reale in fisica. L'aggettivo reale non ha lo stesso peso nelle lingue germaniche e latine.
Altra volta accennammo a passi dei maestri in cui si affiancano produzione e riproduzione, citando Engels dove definisce la riproduzione, ossia la sfera sessuale e generativa della vita, come la "produzione dei produttori".
Sarebbe inutile tracciare una scienza economica, perfino metafisica ossia con leggi immutabili, e tanto più se dialettica ossia volta a tracciare la teoria di una successione di fasi e di cicli, se esaminassimo un gruppo, una società di produttori, dediti sì ad atti lavorativi ed economici tendenti a soddisfare i loro bisogni conservando la loro esistenza e la loro forza produttiva fino al limite di tempo fisiologico, ma che fossero stati (poniamo da un capo razzista!) operati in modo da non potersi riprodurre, ed avere successori biologici.
Una tale condizione muterebbe, e lo ammetterà il seguace di qualunque scuola economica, fin dalla radice tutti i rapporti di produzione e distribuzione di questa stessa alquanto ipotetica comunità.
Ciò vale a rammentare che altrettanta importanza della produzione, che allestisce alimenti (ed altro) atti a conservare la vita fisica del lavoratore, ha, nello stabilire la trama delle relazioni economiche, la riproduzione biologica che prepara - con impegno rilevante di consumi e di sforzi produttivi - i sostituti futuri del lavoratore stesso.
Come vedremo a suo tempo con Engels e Marx contro Feuerbach, l'uomo non è tutto amore né tutto lotta. Comunque la integrale visione del doppio piedistallo economico della società vale a questo: il materialismo è ormai vittorioso finché tratta il campo della produzione: nessuno ivi contesta che vi predomini il criterio della somma materiale di risultati; e su ciò è facile fondare la teoria dell'attività di lotta passando dalle contese molecolari del preteso homo oeconomicus, che ha al posto del cuore non il ventricolo ma un ufficio di ragioniere, alla contesa delle classi, in cui si riassume, con l'economia, tutto il resto delle forme umane di attività. Ma è nel campo della genetica e della sessualità, in cui sembra ai pivelli più arduo realizzare la messa in fuga dei motivi trascendenti e mistici, e tradurre l'attrazione tra il maschio e la femmina - proprio nell'elevarla al di sopra delle sudicerie della moderna civiltà - in termini di causalità economica, che bisogna fondare i più robusti piloni della dottrina rivoluzionaria del socialismo.
Perché l'individuo, piccolo o grande a tenore del banale senso comune, tenda a profittare economicamente e concepisca eroticamente, è problema posto in modo miserabile e vuoto. Noi trasponiamo la dinamica del processo al corso della specie, ed affianchiamo lo sforzo per mantenerne vivi e validi gli elementi attivi, col procedere della sua moltiplicazione e continuazione, cicli entrambi assai più grandi di quelli in cui si avvolge l'idiota timore della morte, e la sciocca credenza nell'eternità del soggetto individuo. Son questi prodotti e connotati decisivi delle società infestate da classi dominanti e sfruttatrici, parassite nel lavoro e nell'amore.
La maledizione del sudore e del dolore, ideologia che definisce le società a dominio di classe, ossia fondate su monopoli dell'ozio e del piacere, sarà travolta via dal socialismo.

Natura e pensiero


La riduzione del problema qui direttamente messo in mira, ossia del problema delle personalità storiche, a quello generale della concezione materialista, appare immediata. Ammettete per un solo momento che il seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla apparizione, dal comportamento, di un uomo solo. Non vi sarà più possibile ritenere e sostenere che l'origine prima di tutta la vicenda sociale sia nei caratteri di date condizioni e situazioni economiche analoghe per grandi masse degli "altri" individui, quelli normali, quelli "piccoli".
Se infatti quel lungo e difficile cammino, che mai assumemmo ridurre ad una semplice automaticità, dal parallelismo delle posizioni nel lavoro e nel consumo, alla finale grande vicenda delle rivoluzioni sociali, del passaggio di potere da classe a classe, della rottura delle forme che determinavano quel parallelismo di rapporti produttivi, dovesse passare per la testa (critica, coscienza, volontà, azione) di un uomo solo, e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario, ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto, allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia stia "nel pensiero" e dipenda da un atto di questo. Qui vi è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è "accidentalità" imprevedibile, tutto casualità, che può studiarsi sì dopo, ma mai prima dell'accadimento. Si sarà fatto così, né più né meno, di cappello alla forca.
Come negare che sia una accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre tutto il campo della riproduzione ad un passo falso... di quello spermatozoo?
Abbiamo duramente lottato contro la concezione più razionale e moderna di quella "granduomistica", propria della borghesia illuminista, che voleva far passare preventivamente il fatto storico non per uno, ma per tutti i cervelli; anteponendo alla lotta rivoluzionaria la generale educazione e coscienza. Ma di questa concezione, incompleta e semilaterale, è ancor più insufficiente quella che tutto concentra nella scatola cranica singola, al che non si vede come altrimenti si provvederebbe se non con l'amplesso, tante volte rammentato nella tradizione, tra un essere divino e uno umano.
Abbiamo fatto a pezzi la teoria, ancora più sciocca di quella della coscienza popolare universale, che si basa sulla metà più uno dei cervelli per pilotare la storia, perché marxisticamente faceva pena e pietà; lasceremo vivere la teoria del cervello unico? Perché non allora quella del riproduttore unico, dello stallone umano, evidentemente meno balorda?
Ritorniamo infatti al quesito: Precedette la natura, o il pensiero? La storia della specie umana è un aspetto della natura reale, o una "partenogenesi" del pensiero?
Il breve scritto di Engels su Feuerbach, e meglio contro una apologia dello Starke (che egli al solito chiama: solo uno schizzo generale, al più alcune illustrazioni della concezione materialistica della storia) compendia una sintesi della storia della filosofia da un lato, e della storia delle lotte di classe dall'altro, magnifica per brevità e per vastità.

Fuori le carte!


Ce ne sarebbe abbastanza per un'esposizione-ruscello (ormai le sedute fiume si computano a giorni) di un paio di mezze giornate, con un adatto commento. Limitiamoci a rilevarne i soli connotati per provare l' identità.
Storicamente, rammenta l'autore, dall'idealista Hegel, la cui filosofia aveva potuto essere presa a base dalla destra conservatrice e reazionaria tedesca, derivò il materialista Feuerbach, e sotto l'influenza del materialismo e della Rivoluzione Francese, possenti antesignani. Da Feuerbach in certo senso derivarono le ulteriori e ben diverse concezioni di Marx e di Engels, dopo un'onda di ammirazione intorno al 1840 e all'uscita dell' Essenza del Cristianesimo, e dopo una critica non meno radicale di quella che Feuerbach aveva applicata ad Hegel, compendiata nelle famose tesi di Marx del 1845, per oltre quarant'anni rimaste ignote, che concludono con la undicesima: i filosofi non han fatto che interpretare variamente il mondo; si tratta ora di mutarlo.
Hegel aveva portato in primo piano l'umana attività, ma alla premessa non aveva potuto dare sviluppo rivoluzionario nel campo storico, per l'assolutezza del suo idealismo. La società futura col suo disegno e modello sarebbe già stata contenuta ab aeterno nella assoluta idea: fatta dalla mente di un filosofo questa scoperta e questo sviluppo, con norme proprie del puro pensiero, trasmessi tali risultati nel sistema del diritto e nell'organismo dello Stato, l'integrale realizzazione dell'Idea era compiuta. In che questo è da noi inaccettabile? In due posizioni, che sono le due facce dialettiche della stessa. Rifiutiamo la possibilità di un punto di arrivo, di un approdo definitivo e insorpassabile. Rifiutiamo la possibilità che fossero già date le proprietà e le leggi del pensiero, prima che il ciclo della natura e della specie si aprisse.
Ma citiamo dunque! "Al pari della conoscenza, non può la storia trovare una conclusione finale in uno Stato perfetto del genere umano: una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che possono sussistere solo nella fantasia; al contrario tutti gli Stati storici che si susseguono sono solo fasi transitorie nell'infinito cammino della società umana".
Hegel ha superato tutti i filosofi precedenti nel porre innanzi la dinamica dei contrasti di cui si compone il lungo cammino fino ad oggi. Purtroppo, come tutti gli altri filosofi, e come tutti i possibili filosofi, questo vivente ribollir di contrasti incapsulò e raggelò nel suo "sistema". "Eliminati che siano tutti i contrasti, una volta per tutte, siamo giunti alla cosiddetta verità assoluta; la storia universale è alla fine, e tuttavia essa deve procedere, benché non le rimanga più altro da fare; un nuovo insuperabile contrasto".
In questo passo Engels fa cadere l'obiezione vecchia, e risollevata da Croce poco prima della morte (vedi la confutazione in Prometeo n. 4 della II Serie) che proprio il materialismo marxista faccia finire la storia, per aver detto che quella tra proletariato e borghesia sarà l'ultima delle lotte di classe. Nel suo antropomorfismo insuperabile, ogni idealista scambia la fine della lotta tra classi economiche con la fine di ogni contrasto e di ogni sviluppo nel mondo, nella natura e nella storia, né può vedere, chiuso nei limiti che per lui sono luce e per noi tenebra, di una scatola cranica, che il comunismo sarà a sua volta un'intensa e imprevedibile lotta della specie per la vita, che ancora nessuno ha raggiunta, dato che vita non merita essere chiamata la sterile e patologica solitudine dell' Io, come il tesoro dell'avaro non è ricchezza, nemmen personale.

Lo spirito e l'essere


Giunge Feuerbach ed elimina la antitesi. La natura non è più la estrinsecazione dell'Idea (lettore: tieni stretto il Filo, che non è spezzato, andiamo verso la tesi che la storia non è l'estrinsecazione del Battilocchio!), non è vero che il pensiero è l'originario e la natura il derivato. Il materialismo viene, tra l'entusiasmo dei giovani, e anche del giovane Marx, rimesso sul trono. "La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia, essa è la base su cui noi uomini, suoi prodotti, siamo cresciuti; oltre alla natura e agli uomini nulla esiste: gli esseri elevati che creò la fantasia religiosa sono solo il riflesso fantastico della nostra propria essenza". Ed Engels, fin qui, plaude anche da vecchio, solo si ferma a deridere il contrapposto che, per l'attività pratica, l'autore erige al posto dell'imperativo morale di Kant: l'amore. Non si tratta qui del fatto sessuale, ma della solidarietà, della fratellanza "innata" che lega uomo a uomo. Su questo si fondò il "vero socialismo" borghese e prussiano dell'epoca, impotente a vedere l'esigenza dell'attività rivoluzionaria, della lotta tra le classi, dell'eversione delle forme borghesi.
È questo il punto in cui Engels riepiloga la costruzione che conserva il fondamento materialista liberandolo dalla pastoia metafisica e dall'impotenza dialettica, che lo immobilizzavano, per altra via, nella stessa "glacialità storica" dell'idealismo, per rivestito che questo fosse apparso di volontà e di attività pratica.
Engels riporta la chiarificazione del problema alla formazione delle figure del pensiero fin dai popoli primitivi. Qui non possiamo che spigolare, ai fini di un angolo visuale più acuto, mentre sarebbe utile al movimento integrare ed allargare (indubbiamente vi provvederà il futuro) specie nei trapassi in cui Engels raffronta il suo dedurre con gli apporti delle varie scienze positive.
"La questione del rapporto tra il pensiero e l'essere, lo spirito e la natura... poteva essere posta nella sua forma più tagliente, poteva acquistare per la prima volta tutta la sua importanza, quando la società europea si destò dal lungo sonno del Medio Evo cristiano. La questione: qual è il primordiale, lo spirito o la natura? - Questa questione si acuì, rimpetto alla Chiesa, così: Ha Dio creato il mondo, o il mondo esiste dall'eternità?
"Questa questione, che nelle varie epoche si scrive in termini diversi, divide con le due risposte i due campi: materialismo e idealismo. Chi considera la natura (l'essere) come primordiale, è materialista, chi lo spirito (il pensare) è idealista. Ma allora occorre l'atto creativo, ed è notevole qui rilevare l'apprezzamento marxista dell'idealismo in questa drastica osservazione: "Questa creazione spesso è presso i filosofi, per esempio presso Hegel, ancora più ingarbugliata ed impossibile, che nel cristianesimo".
Chiarita questa separazione dei due gruppi di filosofi, non finisce la questione dei rapporti tra essere e pensiero. Sono essi estranei o compenetrabili? Può il pensiero degli uomini conoscere e descrivere appieno la naturale essenza? Vi sono filosofi che hanno contrapposto e separato i due elementi: l'oggetto e il soggetto; tra questi è Kant con la sua inafferrabile "cosa in sé". Hegel supera l'ostacolo, ma da idealista, ossia assorbe la cosa e la natura nell'Idea, che quindi ben può ravvisare e comprendere la sua emanazione. Ciò Feuerbach denunzia e combatte: "L'esistenza hegeliana delle 'categorie logiche' prima che esistesse il mondo materiale, non è altro che un fantastico avanzo della credenza in un creatore oltremondano". Ciò non basta che al compito di demolizione critica.
In una chiara esposizione Engels rimprovera a quell'atteggiamento, oltre il quale non aveva saputo andare la cultura tedesca, l'incapacità ad intendere la vita della società umana come un movimento e un processo incessante, al che Hegel aveva pure messo le basi. Tale antistorica concezione condannava il Medio Evo come una specie di parentesi inutile ed oscura (un analogo apprezzamento devono fare i marxisti della recente impostazione insensata della lotta e della critica antifascista e antinazista) e non ne sapeva inserire al suo posto le cause e gli effetti, scorgerne i grandi progressi e gli apporti immensi al corso futuro.
"Tutti i progressi realizzati nelle scienze naturali servirono loro solo come argomenti dimostrativi contro l'esistenza del creatore"... "Essi meritavano la derisione che fu rivolta ai primi socialisti riformisti francesi: dunque, l'ateismo è la vostra religione!".

Dramma ed attori


Segue la presentazione organica della dottrina materialista storica, forse la migliore che mai si sia scritta. Viene fatto il passo che Feuerbach non osò: sostituire "il culto dell'uomo astratto" con "la scienza dell'uomo reale e del suo sviluppo storico".
Con ciò si ritorna un momento ad Hegel: egli aveva instaurata (non scoperta) la dialettica, ma per lui era "l'evoluzione autonoma del concetto". In Marx essa diviene "il riflesso nella coscienza umana del moto dialettico del mondo reale". Come nella celebre frase, viene raddrizzata e poggiata sui piedi, non sulla testa.
Comincia la trattazione della scienza della società e della storia con metodo che coincide con quello applicato alla scienza della natura. Ma nessuno ignora i caratteri di questo particolare "campo" della natura, che è il vivere della specie uomo. Urgendo giungere alle "risposte" engelsiane, riportiamo solo qualche passo essenziale. "Nella natura vi sono agenti inconsapevoli... al contrario nella storia della società quelli che operano sono evidentemente dotati di consapevolezza, uomini operanti con riflessione o passione, tendenti a scopi determinati... Ma questa intenzione, sia comunque importante per l'indagine storica, specialmente di singole epoche ed avvenimenti, nulla può togliere al fatto che il corso della storia è dominato da intime leggi generali...Solo di rado avviene ciò che è voluto... tutti gli urti delle innumerevoli volontà e singole azioni portano ad uno stato di cose, che è assolutamente analogo a quello imperante nella natura inconsapevole. Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che seguono da queste azioni non sono quelli voluti, o, in quanto sembrino corrispondere allo scopo voluto, hanno in conclusione conseguenze affatto diverse da quelle volute... Gli uomini fanno la loro storia, come che essa riesca, mentre ognuno persegue i fini suoi propri... i risultati di queste molteplici volontà agenti in diversa direzione e delle loro molteplici azioni sul mondo esterno, sono appunto la storia... Ma se si tratta di indagare le forze impellenti che - consapevolmente o inconsapevolmente, e veramente assai spesso inconsapevolmente - stanno dietro i motivi degli uomini operanti nella storia, e costituiscono i veri ultimi propulsori di essa, non si può trattare tanto dei motivi determinanti singoli, se anche di uomini eminenti, ma piuttosto di quelli che mettono in movimento grandi masse, interi popoli, intere classi; ed anche questi non momentaneamente, a modo di un fugace fuoco di paglia rapido ad accendersi e spegnersi, bensì a modo di un'azione durevole che mette capo ad una grande trasformazione storica".
Qui alla parte filosofica segue la parte storica fino al grande moto proletario moderno. A questo punto è messa fine alla filosofia nel campo della storia come in quello della natura. "Non importa più escogitare nessi nella mente, bensì scoprirli nei fatti".

Limpidi oracoli


Ricordate i quesiti, e sentite le risposte, non oscure e non ambigue come quelle dell'oracolo antico, ma trasparenti, a conferma delle nostre posizioni.
Alla questione ultima riferita, del 1890.
"Il momento che in ultima istanza è decisivo nella storia, è la produzione e riproduzione della vita materiale".
"La situazione economica è la base, ma i diversi momenti dell'edificio - forme politiche della lotta di classe e suoi risultati, costituzioni fissate dalla classe vittoriosa dopo le battaglie vinte, forme del diritto, e perfino i riflessi di tutte queste vere lotte nel cervello dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, opinioni religiose e loro ulteriore sviluppo in sistemi dogmatici - tutto ciò esercita anche la sua influenza sull'andamento delle lotte storiche, e in certi casi ne determina la forma. È nella vicendevole influenza di tutti questi momenti (= fattori) che, attraverso l'infinito numero di accidentalità... si compie alla fine il movimento economico".
Alla prima domanda della lettera del 1894 sull'influenza causale delle condizioni economiche: "Come condizioni economiche, che consideriamo base determinante della storia della società, intendiamo il modo con cui gli uomini producono i loro mezzi di esistenza e scambiano i loro prodotti (fino a che esiste divisione di lavoro). Tutta la tecnica della produzione e del trasporto è quindi compresa... Ciò determina la ripartizione della società in classi, le condizioni di padronanza e servitù, lo Stato, la politica, il diritto, ecc.".
"Se come ella dice la tecnica dipende in grandissima parte dalla scienza a maggior ragione questa dipende dalle condizioni e dalle esigenze della tecnica... Tutta l'idrostatica (Torricelli, ecc.) fu generata dal bisogno che l'Italia sentì nei secoli XVI e XVII di regolare i corsi d'acqua scendenti dalle montagne" (Cfr. vari scritti del nostro giornale e rivista sulla precocità dell'impresa agricola capitalista in Italia, e sulla degenerazione della tecnica di difesa idraulica moderna nell'inondazione del Polesine).
Sul comma a) della seconda domanda: il momento rappresentato dalla razza, diamo il solo bruciante apoftegma (a filare): "La razza è un fattore economico". Non avevate udito: produzione e riproduzione? La razza è una materiale catena di atti riproduttivi.
Ed infine il comma b), che riguarda il battilocchio, e col quale lasciamo il magnifico Federico.
"Gli uomini fanno essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità, di cui l'accidentalità è il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand'uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo eliminiamo, c'è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre, rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è provato dal fatto che ogni qualvolta ce n'era bisogno l'uomo si è trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.".
Marx! Engels sentiva ben l'urlo della platea: il benservito anche a lui: Thierry, Mignet, Guizot scrissero storie inglesi inclinando al materialismo storico, Morgan vi arrivò per conto suo, "i tempi erano maturi e quella scoperta doveva (stavolta non è nostro il corsivo) essere fatta".
Eppure in una nota al Feuerbach Engels dice: Marx era un genio; noi soltanto dei talenti. Sarebbe deplorevole che da tutta la dimostrazione taluno non avesse capito che differenze fortissime corrono da uomo a uomo come per la forza dei muscoli così per il potenziale della macchina-cervello.
Ma il fatto è che, avendo come massimo esempio liquidato proprio lo shawiano "uomo del destino", non possiamo illuderci di esserci tolti dai piedi i "fessi del destino", poveri autocandidati a coprire il vuoto, che la storia avrebbe pronto per loro, e pieni di preoccupazione per l'eventualità di mancare all'appello, e di imboscarsi alla gloria.

OGGI


Posta recente


Calza con l'argomento una lettera rivolta ad una compagna operaia che, scusandosi a torto di esposizione imperfetta, seppe porre il quesito in modo assai espressivo. Riportiamo il testo di parte della risposta.
Tu scrivi: "dici bene che un marxista deve guardare i principii e non gli uomini... noi diciamo gli uomini non contano e lasciamoli fuori, ma sino a che punto si può far ciò? Se sono gli uomini che determinano in parte i fatti? Se gli uomini sono in parte la causa che determinò lo scompiglio, noi non possiamo dimenticarli del tutto". Non si tratta per nulla di modo traballante di arrivare alla questione; anzi, offri una via molto utile per farlo.
I fatti e gli atti sociali di cui ci occupiamo come marxisti sono operati da uomini, hanno come attori gli uomini. Verità indiscussa; e senza l'elemento umano la nostra costruzione non regge. Ma questo elemento era tradizionalmente considerato in modo diversissimo da quello che il marxismo ha introdotto.
La tua semplice espressione si può enunciare in tre modi; ed allora si vede il problema nella sua profondità, a cui hai il merito di esserti avvicinata. I fatti sono operati da uomini. I fatti sono operati dagli uomini. I fatti sono operati dall'uomo Tizio, dall'uomo Sempronio, dall'uomo Caio.
Non ci distingue solo dagli "altri" la nozione che (essendo l'uomo da un lato un animale, dall'altro un essere pensante) essi dicono che l'uomo pensa prima, e poi dagli effetti di questo pensiero si risolvono i suoi rapporti di vita materiale, e anche animale - noi diciamo che a base di tutto stanno i rapporti fisici, animali, nutrimento, ecc.
La questione appunto non si pone uomo per uomo, ma nella realtà dei complessi sociali e dei loro fenomeni che si concatenano.
Ora quelle tre formulazioni del modo come gli uomini intervengono, scusa i paroloni, nella storia, sono queste.
I tradizionali sistemi religiosi o autoritari dicono: un grande Uomo o un Illuminato dalla divinità pensa e parla: gli altri imparano e agiscono.
Gli idealisti borghesi più recenti dicono: la parte ideale, sia pure comune a tutti gli uomini civilizzati, determina certe direttive, in base alle quali gli uomini sono condotti ad agire. Anche qui campeggiano ancora taluni determinati uomini: pensatori, agitatori, capitani di popolo, che avrebbero data la spinta a tutto.
I marxisti poi dicono: l'azione comune degli uomini, o se vogliamo quanto di comune e non di accidentale e particolare è nell'azione degli uomini, nasce da spinte materiali. La coscienza e il pensiero vengono dopo e determinano le ideologie di ciascun tempo.
E allora? Per noi come per tutti sono gli atti umani che divengono fattori storici e sociali: chi fa una rivoluzione? Degli uomini, è chiaro.
Ma per i primi era fondamentale l'Uomo illuminato, sacerdote o re.
Per i secondi: la coscienza e l'Ideale che conquistò le menti.
Per noi: l'insieme dei dati economici e la comunità di interessi.
Anche per noi gli uomini non si riducono, da protagonisti che creano o recitano, a marionette i cui fili sono tirati... dall'appetito. Sulla base della comunanza di classe si hanno gradi e strati diversi e complessi di disposizioni ad agire, e tanto più di capacità di sentire ed esporre la comune teoria.
Ma il fatto nuovo è che a noi non sono indispensabili, come alle precedenti rivoluzioni, neppure col compito di simboli, uomini determinati, con una determinata individualità e nome.

Inerzia della tradizione


Il fatto è che appunto in quanto le tradizioni sono le ultime a sparire, molto spesso gli uomini si muovono per la sollecitazione suggestiva della passione per il Capo. Allora perché non "utilizzare" questo elemento, che si capisce non muta il corso della lotta di classe, ma può favorire lo schieramento, il precipitare dell'urto?
Ora a me pare che il succo delle dure lezioni di tanti decenni sia questo: rinunziare a smuovere gli uomini e a vincere attraverso gli uomini non è possibile, e proprio noi sinistri abbiamo sostenuto che la collettività di uomini che lotta non può essere tutta la massa o la maggioranza di essa, deve essere il partito non troppo grande, e i cerchi di avanguardia nella sua organizzazione. Ma i nomi trascinatori hanno trascinato in avanti per dieci, e poi rovinato per mille. Freniamo quindi questa tendenza e in quanto praticamente possibile sopprimiamo, non certo gli uomini ma l'Uomo con quel dato Nome e con quel dato Curriculum vitae...
So la risposta che facilmente suggestiona gli ingenui compagni. Lenin. Bene, è certo che dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputa fare e fatta la rivoluzione: vennero lottarono e poi approfondirono meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ammetto. Ma poi? Collo stesso nome si va facendo leva per la totale corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che l'avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917, quando pochi sapevano quel nome.
Allora io dico che nelle tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma che il nome come nome ha un bilancio passivo. Evidentemente si è esagerato. Lenin stesso di gonfiature personali aveva le scatole pienissime. Sono solo gli ometti da nulla a credersi indispensabili alla storia. Egli rideva come un bambino a sentire tali cose. Era seguito, adorato, e non capito.
Sono riuscito a darti in queste poche parole l'idea della questione? Dovrà venire un tempo in cui un forte movimento di classe abbia teoria e azione corretta senza sfruttare simpatie per nomi. Credo che verrà. Chi non ci crede non può essere che uno sfiduciato della nuova visione marxista della storia, o peggio un capo degli oppressi affittato dal nemico.
Come vedi l'effetto storico dell'entusiasmo per Lenin non l'ho messo in bilancio con l'effetto nefasto dei mille capi rinnegati, ma con gli stessi effetti negativi del nome stesso, né sono sceso sul terreno insidioso del: se Lenin non fosse morto. Stalin era anche lui un marxista con le carte in regola e un uomo d'azione di prim'ordine. L'errore dei trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di uomini.

Figuri dell'attualità


Perché abbiamo chiamata la teoria del grand'uomo teoria del battilocchio?
Battilocchio è un tipo che richiama l'attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta vuotaggine. Lungo, dinoccolato, curvo per celare un poco la testa ciondolante ed attonita, l'andatura incerta ed oscillante. A Napoli gli dicono battilocchio con riferimento allo sbattito di palpebre del disorientato e del filisteo; a Bologna, tanto per sfuggire alla taccia di localismo, gli griderebbero dì ben sò fantesma.
La storia e la politica contemporanea di questa data 1953 (in cui tutto risente del fatto generale e non accidentale che una forma semiputrefatta non riesce a crepare: il capitalismo) ne circondano di costellazioni di battilocchi. Il marasma proprio di tale fase diffonde a masse ammiranti e lucidanti la convinzione assoluta che ad essi, e ad essi solo, guardar si debba, che si tratta da ogni lato dei battilocchi del destino, e che soprattutto il cambio della guardia nel corpo battilocchiale sia il momento (poveri noi, o Federico!) che determina la storia.
Tra i capi di Stato, per l'assoluta mancanza di ogni nuova parola e perfino di ogni originale posa, ve ne è un terzetto ineffabile: Franco, Tito, Peron. Questi campioni, questi Oscar di bellezza storica, hanno spinto al nec plus ultra l'arte suprema: togliersi tutti i connotati. Altro che dinastici nasi; che occhi d'aquila!
Quanto ad Hitler e Mussolini buonanime, il primo fa pensare ad uno stato maggiore formidabile di non battilocchi che lo attorniava, elevati per tanto grado di criminali, che non solo facevano storia, ma usavano violenza carnale su di essa a piacer loro! Il secondo si fa perdonare per lo strato ineffabile di sottobattilocchi che lo inguaiava, e che ha dato cambio della guardia, in quel del 1944-45, ad uno stuolo di equipollenti sodali, oggi nostra delizia.
Una terna bellissima che si schiera non nello spazio ma nel tempo, con la prova provata che ogni successione per morto o per elezione produce effetto storico misurato da zero via zero, è quella Delano, Harry, Ike. Le forze americane che occupano il mondo giustificherebbero la definizione di questo periodo come la calata dei battilocchi.

Slavati diadochi


Una costellazione non meno espressiva dello stadio presente, ci è data dai capi nazionali recenti e presenti, e spesso drasticamente spostati, dei paesi e dei partiti che si collegano alla Russia, e non si sa dove meglio scoprir battilocchi, se in fondo alla Balcania o tra le gonne di Marianna. Quando il grande Alessandro morì, l'impero macedone che si era esteso su due continenti fu frammentato in Stati minori affidati ai vari generali di lui, che in non lungo ciclo sparirono senza traccia. Chi ne ricordasse i nomi, ci darebbe molti punti in fatto di storia.
Quando dunque la storia chiama il grande uomo lo trova. Può ben darsi che lo trovi con una testa a basso potenziale. Ma quando chiama battilocchi può avvenire anche che il posto sia coperto da uomini di valore. Non stiamo, allo stato, dando del fesso a nessuno.
Il fatto è che, in Italia ad esempio, il concorso aperto per le grandi personalità si riferisce a posti già occupati da colossi storici. Si tratta infatti di recitare la parodia di una tragedia che ebbe già il suo svolgimento solenne. In occasione del sessantesimo compleanno di Togliatti, e con un cerimoniale bassamente passatista, dopo aver largamente riportato il suo curriculum vitae ed i suoi scritti, sono pervenuti alla definizione in sintesi: un grande patriota.
La controfigura è ormai svuotata da un secolo, e offre poche speranze di non battilocchiesca grandezza. La storia ha già trovato i suoi eroi, senza troppo cercare. Mazzini, Garibaldi, Cavour, e tanti altri, non scenderanno di scanno. Di patria a vero dire ce ne resta pochina, ma di patrioti ne abbiamo una sporta. L'autobus della gloria rivoluzionaria è al completo. Ciò non diffama le qualità del soggetto odierno: i suoi scritti che hanno riesumati dal 1919 (quando si ebbe il torto di non dare ad essi la dovuta attenzione) gli fanno onore: non ha mai cessato di essere un marxista, poiché non lo era mai divenuto. Sosteneva allora quello che oggi sostiene, la missione della patria. Grandissimo, se volete, patriota: come una grandissima diligenza nel tempo dell'elettrotreno e dell'aereo a reazione.
Se, dopo aver dibattuto di Lenin, non abbiamo fatto cenno di Stalin, da poco scomparso, non è per tema che dopo una spedizione punitiva il nostro scalp vada ad adornare il mausoleo, prassi a cui vi è buona speranza di giungere. Stalin è ancora il pollone di un ferreo ambiente anonimo di partito che costruì sotto non accidentali spinte storiche un moto collettivo, anonimo, profondo. Sono reazioni della base storica, e non casi fortuiti della bassa corsa al successo, che determinano lo svolto traverso il quale in una fiamma termidoriana lo stuolo rivoluzionario dovette bruciare sé stesso, e sebbene un nome può essere un simbolo anche quando una persona non conta nulla per la storia, il nome di Stalin resta come simbolo di questo straordinario processo: la forza proletaria più possente piegata schiava alla rivoluzionaria costruzione del capitalismo moderno, sulla rovina di un mondo arretrato ed inerte.
Ben deve la rivoluzione borghese avere un simbolo ed un nome, per quanto sia anche essa in ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali. Essa è l'ultima rivoluzione che non sa essere anonima: perciò la ricordammo romantica.
È la nostra rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di smarrimento, e che come strumento della propria forza di classe avrà un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che all'individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa, per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti.

Morfina e cocaina


Lenin prese da Marx la definizione, da molti combattuta come banale, che la religione è l'oppio del popolo. Il culto dell'entità divina è dunque la morfina della rivoluzione, di cui addormenta le forze agenti; e non per niente nel lutto recente si è pregato in tutte le chiese dell'U.R.S.S.
Il culto del capo, dell'entità e persona non più divina, ma umana, è uno stupefacente sociale ancora peggiore, e noi lo definiremo la cocaina del proletariato. L'attesa dell'eroe che infiammi e travolga alla lotta è come l'iniezione di simpamina: i farmacologi hanno trovato il termine adatto: eroina. Dopo una breve esaltazione patologica di energie, sopravviene la prostrazione cronica e il collasso. Non vi sono iniezioni da fare alla rivoluzione che esita, ad una società turpemente gravida da diciotto mesi, e tuttora infeconda.
Buttiamo via la volgare risorsa di trarre successo dal nome dell'uomo di eccezione, e gridiamo un'altra formula del comunismo: esso è la società che ha fatto a meno di battilocchi.

Edited by mm81 - 2/11/2011, 18:18
 
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mannoio
view post Posted on 2/11/2011, 18:49




CITAZIONE
Quando si esaltano le persone, i grandi uomini, gli illustri cretini, è normale che si finisca per avere una concezione della storia non materialistica dialettica ma antropomorfizzata: si dà la precedenza al Duce.
Può ben darsi che in quel Direttivo del 1956 (ma siamo arrivati a tanto? A scandagliare i fossati pieni di melma per pescare le rane? Siamo arrivati a cercare "chi" ha detto "cosa" nella riunione vattelapesca?) sia stato il solo Parodi a protestare, e con ciò? Molti comunisti hanno protestato fuori della Cgil. Questo genere di amarcord finisce sempre con le beatificazioni del cretino (per quanto illustre) di turno. Un partito che avanza con queste noccioline si riduce agli "ha detto male di Garibaldi".

Alcuni dei grandi uomini, gli illustri cretini di una lista lunga quanto il circolo equatoriale:
Karl Marx,Friedrich Engels, Lenin,Rosa Luxemburg Karl Liebknecht Lev Trotsky Antonio Gramsci Amadeo Bordiga................................................................................................................................................................................................................

 
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mm81
view post Posted on 2/11/2011, 20:41




Che argomenti da politicone. Facciamo ancora più puntini, da qui ... all'infinito e mettiamoci dentro Napoleone, Giulio Cesare, Alessandro Magno, Aristotele, Galileo Galilei, ecc. Potremmo stare qui fino a notte inoltrata a riempire i puntini, con il che avremo dimostrato 2 cose:
- una buona memoria;
- di non aver capito un accidente del materialismo.

I grandi uomini sono macchine più perfezionate di altre, su questo non ci piove. Sono questi che fanno la storia? Federico Engels diceva che la storia prima o poi un grande uomo lo trova sempre. Sono le classi in lotta il motore, non i loro agenti spesso inconsapevoli. E' di questo che si deve parlare, non degli illustri cretini.
La rivoluzione borghese è stata l'ultima ad aver bisogno di eroi, perciò è stata romantica. La rivoluzione proletaria ne farà a meno perchè il suo organo è l'impersonale partito fatto di uomini. Magia della dialettica. Quando la capirete questa benedetta scienza invece di affogarvi a litrate di "scienza, scienza"!?

Nei dibattiti non si cerca pubblicità con frasi che strappano l'applauso. Ricordalo. E' molto facile dire "LENIN!" e sentire l'ovazione. Con questo rivendico essere quelli dei cretini molto illustri e di cui ho rispetto ma non venerazione, di certo non intitoleremo strade con nomi propri.
 
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mannoio
view post Posted on 3/11/2011, 14:38




Rispondo solo perché mosso da umanissima pietà.
CITAZIONE
I grandi uomini sono macchine più perfezionate di altre, su questo non ci piove. Sono questi che fanno la storia? Federico Engels diceva che la storia prima o poi un grande uomo lo trova sempre. Sono le classi in lotta il motore, non i loro agenti spesso inconsapevoli. E' di questo che si deve parlare, non degli illustri cretini.

Le macchine più o meno perfezionate sono il prodotto dell'acume UMANO applicato alla tecnologia. Le macchine più o meno perfezionate sono prive di quello che viene chiamato LIBERO ARBITRIO. Sono appunto un prodotto dell'ingegno umano. Gli uomini sono il prodotto della lotta per la produzione e la riproduzione della vita umana, che notoriamente mancano alle macchine anche le più perfezionate. Si può in astratto paragonare le funzioni umane al funzionamento delle macchine. Ma solo in astratto senza dimenticare che l'uomo produce le macchine e non è da esse (autonomamente ) prodotto. Darwin non ha mai parlato della evoluzione della specie "macchine" ne abbiamo mai visto un 1871 robotico. Esaltare l'umana intelligenza non è corretto ed è ingiusto . Valorizzare e utilizzare capacità umane al di fuori del comune , però non è la stessa cosa. Noi comunisti in fondo siamo nati sotto una buona stella (senza partire da troppo lontano) abbiamo avuto MARX ed ENGELS in sintonia e al momento giusto (macchine perfezionate?) Abbiamo avuto un LENIN caduto a fagiolo (macchina perfezionata?). O semplicemente intelligenza integrata perfettamente alle intelligenze ed esperienze passate? La storia è storia delle lotte di classe e i grandi uomini sono il prodotto massimo dell'umano interagire tra miliardi di individui. Il punto più alto dell'umana produzione.
 
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mm81
view post Posted on 3/11/2011, 20:43




La pietà è dei Cristiani, perciò non mi si addice, per fortuna l'hai messo in conto personale a te stesso; meno male.

Quando parlando degli uomini si usa il termine macchine lo si usa in senso metaforico (certo che la lingua italiana è proprio sconosciuta da quelle parti) per intendere un sistema complesso con proprie regole di funzionamento, come sono appunto le macchine. Rimarcato l'italiano, posso ben dire che la lezione sul macchinismo è stato fiato sprecato o forse voglia eccessiva di dar prova di una vaga conoscenza del marxismo. In entrambi i casi: fuori luogo.
CITAZIONE
Noi comunisti in fondo siamo nati sotto una buona stella (senza partire da troppo lontano) abbiamo avuto MARX ed ENGELS in sintonia e al momento giusto (macchine perfezionate?) Abbiamo avuto un LENIN caduto a fagiolo (macchina perfezionata?).

Lo ripeto e lo faccio usando la mia voce per dare parola a Engels: prima o poi, bene o male, il corso della storia trova sempre l'uomo adatto; ne è la prova il fatto che al momento giusto si è trovato Giulio Cesare, Alessandro Magno, ecc. ecc. Carlo Marx, Lenin, ecc. ecc. Non è l'energumeno che conta ma i grandi aggregati sociali che si scannano in una lotta mortale. Le adorazioni dei grandi padri stile "di notte tutti dormono ed una finestra sola è illuminata, è quella dell'ufficio di Stalin nel Cremlino ..." le lascio ai preti ed a chi ha fede.
Liberi di continuare ad adorare, non accendete un cero anche a mio nome! Aspetteremo che vi imbalsamino anche a voi.

Finalmente tra le righe si parole alla rinfusa, ecco spuntare un'altra esaltazione della società borghese: il LIBERO ARBITRIO!!!
CITAZIONE
Le macchine più o meno perfezionate sono prive di quello che viene chiamato LIBERO ARBITRIO

Evviva, abbiamo mandato per aria (per mare e per terra) tutta l'impalcatura marxista per cui non esiste libero arbitrio ma solo le ideologie della classe dominante, non esiste un pensiero spontaneo, insomma, che non sia quello della classe al potere finchè si è costretti a muoversi in società classiste!

In poco tempo il militante di Lotta antiComunista ha lodato 2 istituti che il comunismo abbatterà:
- religione;
- famiglia;
e ha millantato l'esistenza di una teoria borghese distrutta dalla critica marxista: la libertà di pensiero individuale.

Molto bene.
 
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MA07
view post Posted on 6/12/2011, 15:00




A proposito di ruolo della personalità nella storia. Consiglio a tutti il libello di Plechanov.
http://www.irpps.cnr.it/it/system/files/Pl...Personalita.pdf
 
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16 replies since 30/10/2011, 17:44   1888 views
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