Forum Comunista Internazionalista

Lettera di Stalin al compagno Ivanov, riguardante il socialismo in un solo paese

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Bèla Kun
view post Posted on 3/2/2009, 13:58 by: Bèla Kun




CITAZIONE
costruire con le sue proprie forze una nuova società senza classi, una compiuta società socialista?

ma quali proprie forze? anzi con le sue proprie? é tramite lo Stato e l'enorme apparato organizzativo di questo che è stato possibile togliere (anche se via via la classe borghese il potere se l'è ripreso, tramite la corruzione e l'insediamento sia negli apparati di partito sia nelle realtà industriali) e comunque o c'è lo Stato (diretto o meno dai comunisti) o c'è la società socialista (senza classi nè Stato)



CITAZIONE
Trotzki, Zinoviev, Kamenev e simili messeri, divenuti in seguito spie e agenti del fascismo

ci credi?? :blink:


CITAZIONE
Infatti, nel frattempo siamo riusciti a liquidare la nostra borghesia, a stabilire una fraterna collaborazione con i contadini ed a costruire, nell'essenziale, la società socialista, sebbene la rivoluzione socialista non abbia vinto negli altri paesi.

Quindi esisterebbero diversi gradi di società socilaista? quella compiuta e quella invece costruita "nell'essenziale"?


CITAZIONE
Ciò significa che il serio aiuto del proletariato internazionale è quella forza senza la quale non può essere risolto il problema della vittoria definitiva del socialismo in un solo paese. Ciò non significa, naturalmente, che noialtri dobbiamo starcene con le braccia incrociate ad aspettare un aiuto dal di fuori. Al contrario, l'aiuto del proletariato internazionale deve essere congiunto col nostro lavoro per il rafforzamento dell’Esercito Rosso e della Flotta Rossa per la mobilitazione di tutto il paese per la lotta contro l’aggressione militare ai tentativi di restaurazione dei rapporti borghesi.

" l'aiuto del proletariato internazionale deve essere congiunto col nostro lavoro..." solo questo? non sarà che il primo compito per i lavoratori organizzati negli altri Paesi è quello di lottare contro la propria borghesia?? l'internazionalismo si esaurisce completamente nel difendere la presunta Patria del socialismo??


lasciando perdere i luoghi comuni, che vorrebbero Stalin il rappresentante del comunismo con la c maiuscola, sistema totalitario, utopico, sanguinario e che ha fallito (sanguinario di sicuro) ho notato che spesso chi difende il bafffone ha il vanto di credere che egli avrebbe se non altro costruito qualcosa, difeso, mentre chi lo critica è perso solo nel suo idealismo, dogmatismo e che comunque queste critiche rimasero ciritiche nel senso più vago del termine senza incidere su nulla e pergiunta facili perchè fatte col senno di poi.
No, i compagni che hanno avverso il baffone, non la sua persona bensì la politica che esso portava avanti, la politica del PCUS, del Comintern, provenivano dalla stessa leva di quella generazione di marxisti che diede vita alla III Internazionale. Non militanti o dirigenti della prima ora, ma compagni chehanno vissuto a stretto contatto con la classe, conducendo quella lotta assieme a Lenin che portò alla rottura con la socialdemocrazia. Penso ai dirigenti del partito fondato a Livorno nel '21, penso ai compagni olandesi, tedeschi, allo stesso Nin ucciso da agenti stalinisti, tutta quella generazione di bolscevichi della primissima ora (difficilmente inquadrabile con l'etichetta "troskisti") scomparsa...
Compagni che si sono battuti prima che con la degenerazione staliniana, con la borghesia del proprio paese, hanno diretto lotte sociali, lottato contro i movimenti fascisti (quelli veri), fondato partiti comunisti.

Anche se non mi piace mettere citazioni, ne metto alcune che introducono il già citato "Dialogato con Stalin" del compagno Bordiga con la premessa che non mi ritengo assolutamente 'bordighista', ma solo un comunista del XXI secolo


(...)
In Russia, checché ne sia di polizie silenziatrici che scandalizzano l'occidente (in cui le risorse imbecilizzanti e standardizzanti di cranii sono dieci volte maggiori, e più schifose) il problema di definire lo stadio sociale che si attraversa, e l'ingranaggio economico che è in moto, si impone da sé, e perviene al dilemma: dobbiamo seguitare a dire che la nostra è un'economia socialista, comunista dello stadio inferiore, ovvero dobbiamo riconoscere che è un'economia retta dalla legge del valore propria del capitalismo, malgrado l'industrialismo di stato? Stalin sembra fronteggiare tale riconoscimento, e frenare i troppo spinti economisti e capi d'azienda che vanno nel secondo avviso; in realtà prepara la non lontana (e utile anche in senso rivoluzionario) confessione. L'imbecillità organizzata del mondo libero legge che ha annunziato il passaggio allo stadio pieno, superiore del comunismo!

Per mettere a fuoco una tale questione Stalin abborda il metodo classico. Sarebbe facile giocare la carta di abbandonare ogni obbligo con la tradizione di scuola, con Marx e con Lenin teorici, ma in questa fase del gioco il banco stesso potrebbe saltare. Ed allora invece ricominciamo ab ovo. Bene, è quel che vogliamo, noi che non abbiamo puntate da far fruttare alla roulette della storia, e imparammo al primo balbettio che la nostra era la causa proletaria, e nulla aveva da perdere.

Occorre dunque alla data 1951 di «un testo di studio dell'economia politica marxista» e non solo per la gioventù sovietica ma per i compagni degli altri paesi; impuberi ed immemori, attenti, dunque! (...)

(...)
Il richiamo dei primi elementi della dottrina economica sono per discutere del «sistema di produzione di merci in regime socialista». Abbiamo in vari testi (che beninteso a loro volta si guardavano bene dal dire alcunché di nuovo) sostenuto che ogni sistema di produzione di merci è sistema non socialista, e andremo a ribadirlo: ma Stalin (Stalin, Stalin; noi ci occupiamo di un articolo che potrebbe anche essere dovuto ad una commissione che - «tra cent'anni» - surroghi uno Stalin defunto o inabilitato: comunque il simbolismo colle sue notazioni, nei limiti convenzionali di una pratica di comodo, serve anche a noi) potrebbe avere scritto: sistema di produzione di merci dopo la conquista proletaria del potere, ed allora non saremmo alla bestemmia ancora.

Evidentemente alcuni «compagni» in Russia hanno enunciato - riferendosi ad Engels - che il conservare, dopo la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, il sistema di produzione di merci, ossia il carattere di merci ai prodotti, significa avere conservato il sistema economico capitalistico. In linea teorica non c'è Stalin che possa provare che abbiano torto. Quando e se dicono che, potendo abolire la produzione a tipo mercantile, si è trascurato o scordato di farlo, allora possono sbagliare.

Ma Stalin vuole provare che in un «paese socialista» - termine di dubbia scuola - può esistere la produzione di merci, e se ne rifà alle definizioni di Marx e alla loro limpida sintesi - forse non assolutamente impeccabile - in un opuscoletto di propaganda di Vladimiro.
(...)


Secondo Giuseppe Stalin si può stare in ambiente mercantile e dettare piani sicuri, senza che il terribile Mælstrøm attiri l'incauto pilota al centro del gorgo e lo inghiotta nell'abisso capitalista. Ma il suo articolo denunzia, a chi legge da marxista, che i giri si stringono e si accelerano - come la teoria ha stabilito.

Merce, come ricorda Lenin, è un oggetto che ha due caratteri: essere utile ai bisogni dell'uomo - potersi scambiare con altro oggetto. Ma le righe che precedono il passo, citato tanto dall'alto, sono semplicemente queste:
«Nella società capitalistica domina la produzione delle merci; e perciò l'analisi fatta da Marx comincia con la analisi della merce».

E dunque la merce ha quelle due prerogative, e merce diventa solo quando la seconda si giustappone alla prima.

Questa, il valore d'uso, è del tutto comprensibile anche ad un piatto materialista come noi, anche ad un bimbo, è organolettica; lecchiamo lo zucchero la prima volta, e stenderemo la mano per la zolletta. Lunga è la via, e Marx la fa di volo in quel paragrafo straordinario, perché lo zucchero si investa di un valore di scambio, e perché si arrivi al delicato problema di Stalin, stupito che gli fissassero una equivalenza grano-cotone.

Marx, Lenin, Stalin e noi sappiamo molto bene quale diavoleria succede quando il valore di scambio è nato. Lo dica dunque Vladimiro. Dove gli economisti borghesi vedevano dei rapporti tra cose, Marx scoprì dei rapporti tra uomini! E che cosa dimostrano i tre tomi di Marx e le 77 paginette di Lenin? Una cosa facile. Dove l'economia corrente vede la perfetta equivalenza di uno scambio, noi non vediamo più i due oggetti permutati, ma vediamo uomini in moto sociale, e non vediamo più l'equivalenza, ma la fregatura. Carlo Marx parla di uno spiritello che dà alla merce questo carattere miracoloso e a prima vista incompensabile. Lenin con ogni altro marxista avrebbe inorridito all'idea che si possono produrre e scambiare merci espellendone con esorcismi quel diavoletto: Stalin forse lo crede? O vuole solo dirci che il diavolino è più forte di lui?

Come i fantasmi dei cavalieri medievali si vendicano della rivoluzione di Cromwell infestando i castelli inglesi, borghesemente ceduti ai landlords, cosi dunque il folletto-feticcio della merce corre irrefrenabile per le sale del Kremlino e ghigna dai diffusori dei milioni di parole del XIX congresso.

Volendo stabilire che non è assoluta la identificazione tra mercantilismo e capitalismo, Stalin impiega una volta ancora il metodo nostro. Risale nei secoli, e con Marx ricorda che
«sotto certi regimi (schiavista, feudale, ecc.) la produzione di merci è esistita senza aver portato al capitalismo».
Questo infatti è detto nella potente scorsa storica Marx in quel passo, ma a ben altro fine e con ben altro sviluppo. L'economista borghese proclama che per collegare la produzione al consumo non potrà mai esistere altro meccanismo che quello mercantilistico, in quanto sa molto bene che fin che quel meccanismo è in piedi il capitale resta signore del mondo. Marx ribatte: andremo adesso a vedere quale è la tendenza storica del domani; per ora vi costringo a constatare i dati innegabili del passato: non sempre il mercantilismo ha provveduto a portare il risultato del lavoro fino a chi aveva bisogno di consumarlo; e cita le economie primitive di raccolte dei cibi per immediato consumo, i tipi antichi di famiglia e di clan, le isole chiuse del sistema feudale a consumo diretto interno senza che i prodotti dovessero assumere la forma di merci. Con lo svolgersi e il complicarsi della tecnica e del bisogno si aprono settori cui provvede il baratto prima e poi il commercio vero e proprio, ma (per la stessa via che ci è servita a proposito della proprietà privata) resta provato che il sistema mercantile non è «naturale», ossia come il borghese pretende permanente ed eterno. Ora questo tardivo apparire del mercantilismo (o sistema di produzione delle merci come Stalin dice) questo può coesistere a margini di altri sistemi, serve appunto a mostrare come, divenuto sistema universale appena dilaga il sistema capitalistico di produzione, dovrà insieme ad esso morire.

Lungo sarebbe riportare come tante volte facemmo i passi di Marx contro Proudhon, Lassalle, Rodbertus e cento altri, che si riducono all'accusa di voler conciliare il mercantilismo con l'emancipazione socialista del proletariato.

Difficile appare accordare con tutto questo, che Lenin chiama la pietra angolare del marxismo, la tesi attuale cosi riferita: «non c'è alcuna ragione perché, nel corso di un determinato periodo, la produzione di merci non possa servire anche ad una società socialista» ovvero: «la produzione di merci riveste un carattere capitalistico solo quando i mezzi di produzione sono nelle mani di interessi privati, e l'operaio, che non ne dispone, è costretto a vendere la sua forza di lavoro». L'ipotesi è evidentemente assurda poiché nell'analisi marxista ogni volta che una massa di merci appare egli è perché i proletari privi di ogni riserva hanno dovuto vendere la forza di lavoro, e quando in passato vi furono quei (limitati) settori di produzione di merci, fu in quanto la forza di lavoro non era venduta «spontaneamente» come oggi, ma estorta colle armi a schiavi prigionieri o a servi legati da rapporti di dipendenze personali.

Dobbiamo ancora una volta ristampare le prime due righe del Capitale?
«La ricchezza delle società nelle quali domina il modo capitalista di produzione si manifesta come un'immensa accolta di merci».


Il testo che ci occupa, dopo avere con maggiore o minore abilità ostentato di voler risalire alle fonti dottrinarie, si porta sul terreno della presente economia russa, per far tacere quelli che avrebbero affermato che il sistema di produzione delle merci deve portare inevitabilmente alla restaurazione del capitalismo, o noi che più chiaramente diciamo: il sistema della produzione per merci sopravvive in quanto siamo in pieno capitalismo.

Sull'economia russa vi sono nel notevole testo le seguenti ammissioni. Se le grandi fabbriche industriali sono statizzate, non sono tuttavia espropriate le piccole e medie industrie, anzi il farlo «sarebbe stato un delitto». L'orientamento sarebbe di svilupparle in cooperative di produzione.

Vi sono due settori della produzione di merci: da una parte la produzione di Stato che è nazionale. Nelle imprese statali sono di proprietà nazionale i mezzi di produzione e la produzione stessa, ossia i prodotti. Semplice: in Italia verbigrazia sono dello Stato i tabacchifici, e così le sigarette, che esso smercia. Ma basta questo a dare il diritto di dire che siamo in fase di «liquidazione del salariato» e che l'operaio «non è costretto a vendere la sua forza di lavoro»? No, di sicuro.

Passiamo all'altro settore, quello agricolo: nei colcos, dice lo scritto sebbene la terra e le macchine siano proprietà dello Stato, il prodotto del lavoro non appartiene allo Stato, ma al colcos stesso. E questo non se ne disfá se non come merce di scambio per i beni di cui abbisogna. Non esistono tra i colcos delle campagne e le città altri legami che quelli dati da questo scambio:
«la produzione, la vendita e lo scambio di merci costituiscono per noi una necessità, non meno di quanto avveniva 30 anni fa».

Tralasciamo ora l'argomentare sulla molto lontana possibilità di superare una tale situazione. Resta stabilito che non si tratta qui di dire, come Lenin nel 1922: abbiamo il potere politico nelle mani e sosteniamo la situazione militare, ma nell'economia dobbiamo ripiegare sulla forma mercantile, pienamente capitalistica. Il corollario di una tale constatazione era: lasciamo per ora di costruire economia socialista, ci torneremo dopo la rivoluzione europea. Altri ed opposti sono i corollari di oggi.

Non si tratta nemmeno di cercare di stabilire la tesi: nel trapasso dal capitalismo al socialismo, tuttavia, per un certo tempo, una certa sezione della produzione avviene in forma di merci.

Qui si dice: tutto è merce; e non vi è altro quadro economico che lo scambio mercantile, e per stretta conseguenza anche la compera della forza lavoro salariata nelle stesse grandissime aziende di Stato. Ed infatti: i generi di sussistenza dove li trova l'operaio di fabbrica? Li vende il colcos per un tramite di mercanti privati, o magari li vende allo Stato da cui compra attrezzi, concimi ed altro, e l'operaio va a prendere i generi, pagandoli in moneta, nei magazzini di Stato. Può lo Stato distribuire ai suoi operai direttamente prodotti di cui è proprietario? No certamente, dato che il lavoratore (russo soprattutto) non consuma trattori, automobili, locomotive, e tanto meno... cannoni e mitragliatrici. Gli stessi oggetti di vestiario ed arredamento sono evidente campo di produzione di quelle intatte medie e piccole private aziende.

Lo Stato non può dunque dare altro che il salario in denaro ai suoi dipendenti, che con tale denaro acquistano quello che vogliono (formula borghese, che vuol dire quel poco che possono). Che il padrone erogatore di salario sia lo Stato che «idealmente» o «legalmente» rappresenta gli operai stessi, nulla significa fino a quando un tale Stato non ha nemmeno potuto cominciare a distribuire alcunché fuori del mercantile meccanismo, alcunché di statisticamente apprezzabile.
 
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26 replies since 3/2/2009, 00:53   649 views
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