Forum Comunista Internazionalista

L'arco dell'illusione

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cucchiaroni82
view post Posted on 25/1/2010, 16:51




Disincanto, delusione, amarezza, questi sono i registri che non di rado si rintracciano negli articoli che oggi commemorano la caduta del Muro di Berlino e l'avvio del manifesto sfaldamento del regime sovietico e della sua sfera d'influenza nell'Europa centro-orientale.
Su l'Unità, lo storico Nicola Tranfaglia traccia un quadro degli equilibri internazionali, delle situazioni sociali che si sono andate definendo dopo il fatidico Ottantanove. Il giudizio è amaro: conflittualità come tratto caratterizzante il ventennio, massacri con potenze ed organismi internazionali incapaci di agire come fattore di pacificazione. E ancora: predominio di oligarchie, crisi dei sistemi democratici, e, richiamando un saggio dello storico Angelo d'Orsi, una gestione dell'economia <<a vantaggio dei più forti: Paesi, classi, lobby>>.
Il tono amaro però non appartiene solo agli uomini un tempo riconducibili al Pci e, quindi, ad una componente politica oggettivamente inserita nell'assetto bipolare di spartizione dell'Europa.
Olivier Guez, nel brano pubblicato da Il Foglio, compara, in un accostamento che gronda un acido rimpianto, l'entusiasmo, l'euforia, l'ebbrezza di un'utopia percepita ormai a portata di mano che attraversarono allora le grandi capitali dell'Est europeo alle attuali immagini di una sconfortante nottata giovanilistica a Zara: un dimenarsi di corpi, musiche, abitudini alcooliche e trasgressioni ormai omologate da Miami alla costa dalmata (unico segno di un permanere di specifica identità: la foto sul muro del locale, un generale croato accusato di crimini contro l'umanità).
Ma Guez non si ferma alle sue personali impressioni e sciorina un campionario di brutture che rendono irriconoscibile l'odierno Est europeo dalla sua, ormai lontana, rappresentazione di terra redenta: violenze contro gli zingari in Ungheria, Stati baltici sull'orlo dell'insolvenza, Repubblica Ceca alla prese con una difficile fase politica, pulsioni antisemite evidenti in Polonia, xenofobia, corruzione, crescente populismo dal Baltico al Mar Nero.
Tempo di bilanci tristi, quindi, e non solo da parte di chi coltiva nostalgie ideali e intellettuali per la Mitteleuropa colpita a morte dai massacri di massa e dall'ingegneria etnica del Novecento. Anche l'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, un esponente politico che ha avuto incarichi di rilievo nell'azione di Governo del maggior imperialismo europeo, delinea uno scenario dalle molteplici contraddizioni, dove ai successi si accompagnano gravi fallimenti e delusioni. L'Europa è stata, afferma Fischer nell'articolo pubblicato da La Repubblica, tra i grandi vincitori dell'Ottantanove ma nemmeno da questo punto di vista il consuntivo di quella svolta storica ha un univoco segno positivo: l'Europa ha ottenuto il successo della moneta unica ma l'integrazione politica << per mezzo di un trattato costituzionale>> si è risolta in un <<fallimento>>. In Germania, dove i vertici politici si orienterebbero ormai più a criteri nazionali che europei, <<la stanchezza nei confronti dell'Europa è quanto mai palpabile>>.
Se il tedesco ed europeista Fischer stenta a trovare grandi motivi di entusiasmo nell'Europa scaturita dai rivolgimenti del 1989, anche i massmi esponenti della Chiesa devono confrontarsi con gli sviluppi che hanno attraversato i Paesi un tempo sottoposto al controllo russo.
A fine settembre Benedetto XVI si è recato a Praga, uno degli snodi del processo che vide franare l'Urss e il suo sistema politico in Europa centro-orientale. L'inviato di La Repubblica Marco Politi ha descritto una città <<distratta e indifferente>>. Nella terra di San Venceslao il numero dei cattolici è precipitato dall'80% di prima della guerra mondiale al 30 di oggi e appena il 5% dei fedeli va a messa. Frutti dell'ateismo imposto nella presunta società comunista? Semmai una società che sempre più ricorda gli stili di vita, le dinamiche sociali dei Paesi a più avanzato sviluppo capitalistico. Tanto è vero che il pontefice anche da Praga indica i pericoli della <<mentalità del consumismo edonista>>, la deriva di quel <<relativismo etico e culturale>> più e più volte indicato come tratto essenziale delle realtà sociali occidentali.

Something is rotten

I rimanenti nostalgici dello stalinismo potrebbero anche fregarsi le mani: aevete voluto la bicicletta della fine dell'Urss e del trionfo del mercato e adesso pedalate!
Ma questo modo di pensare si basa su presupposti falsi ed è privo di vitalità politica.
Nell'epoca della cosidetta guerra fredda e della effettiva spartizione dell'Europa tra la sfera di influenza statunitense e russa a spese dell'imperialismo tedesco, non è mai stata in questione la permanenza nel modo di produzione capitalistico, non c'è mai stata alcuna operante formazione sociale alternativa al sistema capitalistico, non si è mai verificata la contrapposizione tra comunismo e capitalismo. Il capitalismo russo, a forte connotazione statale, ha sempre più mostrato la corda, stentando sempre più a tenere legate a sé realtà capitalistiche più dinamiche e storicamente orientate al mercato tedesco ed occidentale. Chi oggi lamenta nell'Est europeo l'omologazione sui canoni della più becera televisione giovanilistica, la cruda affermazione delle logiche di mercato e consumistiche nelle terre del "socialismo reale" non dovrebbe mai dimenticare che non siamo di fronte alla vittoria del capitalismo su un'altra formazione sociale, ma alla vittoria di un capitalismo più forte, più agguerito contro un capitalismo più debole e meno competitivo, che ebbe anch'esso le sue omologazioni (spesso imposte con la forza delle armi e della repressione poliziesca, a conferma della propria debolezza) e le logiche fragili di un mercato stentato.
Che il trionfo del capitalismo nelle sue forme più forti e selezionate non potesse tradursi in una liberazione dell'essere umano dallo sfruttamento, dall'asservimento ai disvalori della società classista e dall'esposizione alle precarietà della sottomissione del lavoro al capitale, era ed è per i marxisti qualcosa di ovvio.
Chi pensava che la liberazione dal giogo russo, giogo che è stato reso possibile da oggettive intese imperialistiche tra l'"impero del male" e le principale capitali del "mondo libero", senza mettere in discussione le basi della comune identità sociale capitalistica, potesse significare di per sé liberazione dell'essere umano, il traguardo della Storia, l'avvento di un mondo finalmente emancipato dalle sue grandi piaghe, unificato e pacificato nel segno del comune destino borghese, oggi si trova di fronte una realtà spaventosamente differente. Una realtà dove precarietà, povertà, scompensi sociali tipici della fase contemporanea si intrecciano con rancori, sussulti, nodi irrisolti che giungono dal passato. I Paesi, le realtà capitalistiche che erano stati compressi nel sistema del Patto di Varsavia si sono riaffacciati in piena luce sulla scena internazionale ma non come luoghi dell'anima capaci ormai solo di eterna fioritura economica, civile, culturale. Il capitalismo polacco è tornato con il suo Stato pienamente sovrano e sono emerse anche le venature nazionalistiche che hanno attraversato la sua storia e che oggi hannno trovato nuove leve di politici borghesi ad interpretarle. Nazionalismi, tensioni etniche attraversano i paesi baltici e il Caucaso, lo sfruttamento capitalistico estorto in nome delle democrazie popolari ha lasciato posto all'aperto sfruttamento in nome del profitto e dell'arrichimento individuale. L'emigrazione svuota centri abitati e disgrega equilibri familiari in Paesi come l'Ucraina e la Romania.
La Russia mostra gli artigli a difesa di ciò che rimane della sua sfera di influenza e si impone, a chi ha occhi e onestà per vedere, la chiara linea di continuità imperistica che dai Romanov arriva a Putin e Medvedev, passando per l'Urss. La bandiera rossa, vergognosamente utilizzata dallo Stato stalinista, ha lasciato il posto al tricolore russo ma nel segno perdurante del perseguimento degli interessi della Russia imperialistica. Una realtà con cui altri imperialismi, del resto come in passato, anche sotto mentite spoglie del comunismo, possono benissimo intrattenere rapporti e stringere accordi. Assistiamo così a capi di Stato come il premier italiano Berlusconi, fiero sostenitori del mercato, esponente orgoglioso del pensiero liberale e della lotta al comunismo rappresentato dalla potenza sovietica e dai suoi orrori, scambiarsi effusioni con i vertici politici russi, mentre i "nuovi ricchi" accumulano fortune faraoniche, mentre la povertà attanaglia i pensionati e le manifestazioni di protesta e di disagio sociale vengono represse con la tipica durezza delle classi dominanti russe. Di fronte a spettacoli come questo la retorica dell'Ottantanove, trionfante sui canali televisivi, assume i tratti di una perfida irrisione.
Qualcosa non quadra, <<something is rotten>> scrive Olivier Guez a commento della parabola della disillusione che ha attraversato i Paesi riemersi dalla coortina di ferro. In realtà tutto quadra. Tutto è avvenuto e sta avvenendo in base agli effettivi meccanismi di funzionamento, ai genuini criteri e alle autentiche logiche del capitalismo. Se poi per capitalismo si intendeva una società dove il benessere generale e la maturazione politica e civile fossero la cifra prevalente, in cui sfruttamento, contraddizioni sociali, antogonismi di classe, conflitti economici, rivalità nazionali ed etniche, mercificazione dell'essere umano e inaridimento della sua esistenza in nome del mercato e del profitto fossero disfunzioni occasionali ed evitabili, allora è inutile cercare la "colpa" nei popoli dell'Est incapaci di rispettare le storiche attese, in quello o quell'altro esponente politico o magari nella natura umana ineluttabilmente votata al male. Chi ha scambiato il capitalismo per i propri sogni ha solo due strade: o continuare ad ingannare e forse ad ingannarsi o fare i conti con la realtà e tornare (o meglio: finalmente arrivare) a Marx.

Il ritorno di Europa?

L'Europa grande vincitrice dell'Ottantonove una formula ricorrente ma imprecisa. La fine dell'assetto di Yalta ha visto intensificarsi straordinariamente le spinte della germania a riacquisire un peso politico più proporzionale alla sua forza economica. La Germania ha potuto addirittura superare la propria divisione e riproporsi come forza centrale nel processo di rilancio di un'integrazione politica dell'imperialismo europeo.
Ma il ritorno in forze dell'imperialismo tedesco nel cuore dell'Europa non ha solo infuso nuovo slancio ai progetti e alle tendenze ad un approfondimento del coordinamento e della condivisione delle politiche, delle istituzioni e degli strumenti di azione dei vari imperialismi europei. Ha anche scosso profondamente gli equilibri, i rapporti che avevano caaratterizzato una lunga fase di vita politica e di collaborazione economica nel quadro dell'imperialismo eururopeo. A Parigi, a Londra e a Roma non mancarono infatti i sospetti e le preoccupazioni di fronte alla prospettiva di un ritorno a pieno regime del motore tedesco.
Lo abbiamo già ricordato in altre occasioni: la fine del bipolarismo di Yalta non poteva significare il superamento delle logiche imperialistiche all'interno dell'Europa, demandate all'esterno nel nome dell'obbiettivo strategico di una potenza unica su scala continentale da contrapporre ai concorrenti imperialistici.
L'imperialismo francese, quello tedesco, quello britannico e, attraverso il gioco di alleanze e sinergie, gli altri minori imperialismi europei, hanno cercato di imprimere il proprio segno alla costruzione europea, hanno cercato di tutelare in questo processo i propri interessi prioritari anche a scapito dell'efficienza di un'ipotetica organizzazione statuale comune.
Jacques Attali, consigliere del presidetne Mitterand, ha redatto anch'egli un bilancio dell'Ottantanove, della riunificazione tedesca e del processo europeo. La sua versione, pubblicata a luglio sulla rivista l'Express, ha suscitato le ire dell'ambasciatore tedesco a Parigi. La Germania, accusa Attali, non solo è riuscita a far pagare ai partner europei il costo della riunificazione, ma ha mirato ad un'Europa poco consistente, allargata ad un numero crescente di Paesi, incentrata sul <<marco rinominato euro>> e sbilanciata verso Est.
Tommaso Padoa-Schioppa, nella pubblicazione del Corriere della Sera dedicata all'anniversario della caduta del Muro (Storie: Oltre il Muro), lamenta il rifiuto da parte della dirigenza francese di accettare che, dopo la fine della spartizione di Yalta, la costruzione europea non avrebbe più potuto seguire la traccia di quel federalismo <<goccia a goccia>> su cui la Francia aveva potuto esercitare il controllo.
Almeno in parte l'imperialismo francese ha mostrato di aver poi accettato nei rapporti di forza interni all'asse renano e la grande battaglia politica del 2003 sulla guerra statunitense all'Iraq ha visto Berlino assumere un ruolo che in passato non avrebbe mai potuto incarnare. Il nucleo renano non si opponeva alla mossa statunitense nelle classiche forme della forza tedesca guidata e rappresentata politicamente sopratutto da Parigi.
Fu la sconfitta di quel tentativo di compattare l'Europa sotto l'egida dell'opposizione renana agli Stati Uniti a contribuire in modo determinante allo stallo successivo dei progetti e degli sforzi di proseguire nell'integrazione politica dei Paesi dell'Unione europea.
Paradossalemente, per chi aveva aderito alla formula dell'Europa vincitrice dell'Ottantanove, furono anche Paesi come la Polonia, un tempo legati al patto di Varsavia, a offrire agli Stati Uniti la possibilità di intervenire ancora come "potenza europea" e minare l'azione renana. La questione cardine delle dinamiche imperialistiche si confermava, anche dopo la caduta del Muro, la forza. L'asse renano non aveva dimostrato una forza sufficiente.
Oggi Tommaso Padoa-Schioppa associa ai successi garantiti dalla moneta unica (ben più catastrofico sarebbe stato l'impatto della tempesta economica sui paesi europeo ancora vvincolati alle monete nazionali) il giudizio sull'<<occasione storica mancata>>. L'euro infatti rappresentò <<solo il consolidamento di un'integrazione economica già avvenuta>>. Non si è rivelato quella <<piattaforma>> capace di sostenere il completamento dell'unione politica. I Paesi europei, raggiunta la moneta unica, si sono inoltrati in un lungo cammino, in una serie di tappe incaricate di portare all'unificazione politica continentale, finendo invece per percorrere una parabola di ridimensionamento e di annacquamento delle istanze politiche federaliste (i pilastri che avrebbero dovuto reggere l'unificazione delle politiche estere, di sicurezza, degli affari interni e della giustizia, sono sostanzialmnte rimasti nel segno di una <<diplomazia intergovernativa>>.
Oggi possiamo constatare come il Trattato di Lisbona, frutto di quel processo di sfrondamento delle ambizioni federaliste, non possa aggirare la questione della forza. Le cariche, le riforme e le istituzioni previste dal trattato non sono la risposta, finalmente partorita dall'ingegneria istituzionale o dal lavorio diplomatico, ad un'unità già nei fatti raggiunta o fatalmente destinata a realizzarsi.
Sono strumenti, entità politiche che potranno dimostrarsi utili nell'affermazione di un potere statuale europeo o figure istituzionali scarsamente rilevanti nei momenti cruciali (come è già avvenuto nelle vicende internazionali, dove nei momenti di crisi e di scontro sono state le autorità nazionali dei Paesi europei a confermarsi potere effettivo e determinante) o addirittura rivelarsi come manifestazioni dell'inconsistenza dei progetti politici comunicomunitari. Dipenderà dalla forza, dal concreto svolgersi del confronto imperialistico, del confronto tra gli effettivi poteri statuali degli imperialismi.

www.prospettivamarxista.org


Edited by N-Z - 16/6/2011, 02:16
 
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