Forum Comunista Internazionalista

A venti anni dalla fine del falso socialismo

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Mariopaolo1976
view post Posted on 14/1/2010, 19:10




Da "Il Partito Comunista" n° 338 - novembre-dicembre 2009

A VENTI ANNI DALLA FINE DEL FALSO SOCIALISMO

Commentando la caduta in Russia del partito-Stato Pcus nel 1991 scrivemmo né rivoluzione né controrivoluzione, il classico cambiare tutto per non cambiare nulla.

La sconfitta, sui campi della Seconda Guerra, del progetto di unificazione europea sotto l’egemonia tedesca segna l’inizio dell’irreversibile declino del continente, che perde tutti i suoi imperi coloniali. Gli eserciti americano da occidente e russo da oriente, dopo aver distrutto pesantemente città, infrastrutture ed impianti, mantenevano le loro truppe di occupazione sul territorio, scrivevano le carte costituzionali degli Stati vinti e vi modellavano i nuovi partiti “democratici”. Gli americani investivano ed esportavano largamente il loro sovrapprodotto nel vecchio continente; i russi invece, affamati di capitali necessari alla industrializzazione della madrepatria “socialista”, drenavano dalla loro parte d’Europa quante più risorse possibile.

Si venne così a determinare la divisione del continente in due zone, separate dalla cosiddetta cortina di ferro. Un unico ambiente storico, che almeno da sei secoli aveva costituito un tessuto connesso da stretti scambi di merci, di conoscenze e di pensiero, si trovò tagliato in due con impossibilità di comunicazione sia commerciale sia di forza lavoro. Alla conferenza di Yalta, sotto le insegne delle riconquistate “libertà”, si veniva ad imporre uno dei peggiori oltraggi ai conclamati principi della nazionalità, del progresso, dei diritti collettivi e degli individui. Se la Seconda Guerra significa la sconfitta definitiva del ciclo internazionale di assalto al cielo proletario nel primo quarto del Novecento, la vivisezione dell’Europa, ad opera delle nuove potenze americana democratica e russa staliniana, viene a piantare le insegne della controrivoluzione sul sostrato, il crogiolo storico della rivoluzione mondiale. La nostra rivoluzione avrebbe allora avuto da fare i conti da una parte con le forze armate, aperte e clandestine, stellestrisciate, dall’altra con i carri armati dei “partiti fratelli”. I nuovi “barbari” non portavano progresso ma sanzione della controrivoluzione e suo internazionale braccio armato.

Le borghesie europee, delle quali anche le maggiori italiana e francese nella guerra avevano dato dimostrazione di tutta la loro viltà e impotenza, non riusciranno poi a scrollarsi di dosso la “protezione” militare ed economica degli occupanti, che anzi accetteranno supinamente.

Due generazioni di europei, di qua e di là, hanno vissuto in questa “sistemazione”. L’Ovest, inserito nei flussi commerciali e finanziari del mercato mondiale, si abbevera al mito “liberale”, i paesi d’oltre cortina che invece vengono a costituire un blocco relativamente più chiuso ai traffici e tendente all’autarchia, sono sospinti al mito del “socialismo”. Vinta la rivoluzione comunista del 1917-19 in Russia e in Europa e degenerata dopo non molti anni la Terza Internazionale Comunista, le parole “socialismo” e “comunismo” perdono ogni loro significato originario e di classe per divenire espressione, in economia, di capitalismo di Stato e di economia pianificata, e in politica di forma istituzionale a partito unico. Questo stravolgimento lessicale, prodotto di una nostra sconfitta storica, è pacifico in entrambi gli schieramenti, che si contendono però l’appellativo di “democratici”.

La cortina di ferro non divide due gruppi di Stati di opposta natura politica e di classe, ma è la necessaria protezione fra due aree di accumulazione capitalistica con storia diversa e con diverso grado di produttività: le merci prodotte all’Est non riescono a competere con quelle dell’Ovest. La piena integrazione dei due mercati, auspicata da entrambi almeno dal 1956, non riesce ad attuarsi nelle forme graduali e pacifiche della concorrenza commerciale.

Ovviamente il blocco orientale e tutt’altro che tale, avendo il fatto militare portato ad inglobare paesi assai diversi per storia e grado di sviluppo: quello russo è un impero che ha una periferia, quella europea, più industrializzata della metropoli, e questa stessa periferia, dal Baltico ai Balcani, non è per niente uniforme.

Il capitalismo, con tutte le sue leggi, è lo stesso medesimo ed unico; storicamente abbiamo avuto in Russia una sua istanza, che il nostro partito ha studiato e descritto nelle sue caratteristiche, nel suo maturare e del quale ha ben anticipato il corso catastrofico e sicuramente convergente col suo omologo e rivale. In Russia è mancata la espropriazione dei contadini, che a suo tempo non ha potuto imporre la nostra rivoluzione, che era anche la loro, né poi il permanente compromesso sociale staliniano, che li bloccava nei colcos. La edificazione del socialismo, cioè del capitalismo in Russia, non ha potuto fondarsi sul surplus di manodopera e di ricchezza ricavato dalle campagne. Ciò non ha impedito che un moderno industrialismo capitalistico si impiantasse in Russia e si ricostruisse sulle distruzioni della guerra nei paesi dell’Europa orientale, e che un mercato, che si ebbe l’impudenza di dire “socialista”, collegasse tutto l’impero, con scambio di minerali, prodotti agricoli e manufatti. Il tutto ha funzionato, capitalisticamente, sebbene gli ideologi dell’Est, consci del loro relativo ritardo, venissero molto presto a riconoscere che il loro modello, cui ambire e gradualmente tendere, era l’America!

Nelle due parti dell’Europa le condizioni sia della piccola borghesia sia della classe operaia sono andate gradualmente migliorando, della qual cosa si sono fatti merito rispettivamente la “libertà” e il “socialismo”, ed il che ha garantito la pace sociale. E nelle due parti d’Europa il regime di fatto si è sempre fondato su un partito unico, lacerato nella lotta fra silenziose correnti interne, ovvero fra chiassosa pluralità di denominazioni, ma con unico programma. La fase del ciclo storico vi ha in parallelo impedito la rinascita del partito di opposizione proletaria e le organizzazioni sindacali vi sono ugualmente asservite ai governi. Non v’è stata, quindi, né era da supporre, nel blocco “socialista”, una rivolta “di popolo” per la “libertà”, capeggiata da intellettuali e studenti.

Tutta questa emulazione, come si diceva, ha durato però solo fino alla crisi economica, che, all’Est come all’Ovest, ha cominciato a manifestarsi nella seconda metà degli anni Settanta. Benché relativamente protetto quello russo fa parte del capitalismo mondiale, ne segue il ritmo ed è parte del suo invecchiamento e declino.

Uno dopo l’altro sconfinati apparati statali di polizia e di capillare controllo sociale, che si dicevano di efficienza meccanica e di forza irresistibile, di fronte alla sotterranea crisi dell’economia, non sono riusciti, in tutti quei paesi, a tenere in piedi il partito dal quale da sessant’anni, o da quaranta, dipendevano e prendevano ordini. Quando è il momento i governi crollano da sé e senza colpo ferire: vedasi in Italia con Mussolini.

Dalla gravissima crisi economica, che era venuta a scardinare la complementarietà economica del blocco orientale e tutti i suoi equilibri militari e politici, esce una esplosiva crisi istituzionale che irresistibile travolge partiti e apparati uno dopo l’altro. Ma la crisi delle istituzioni statali non può divenire crisi sociale, politica e rivoluzionaria. Tranne la stagione degli scioperi in Polonia, il proletariato e la piccola borghesia solo assistono al crollo delle vecchie istituzioni, non ne sono gli artefici né ne possono approfittare per prendere il potere. In quei momenti, in quegli anni la situazione non è rivoluzionaria, manca il partito rivoluzionario, manca perfino l’allenamento operaio alla lotta sindacale. Nemmeno rinascono partiti borghesi, piccolo borghesi o contadini: non è più quel momento storico, ormai la borghesia, sociologicamente intesa, né è più al potere, sostituita al governo dello Stato da un “comitato d’affari” del grande capitale e della finanza, con stretti legami internazionali, né ha vitalità storica e forza per volerlo. Un solo partito è storicamente abilitato a farlo, quello comunista e rivoluzionario della classe operaia, quando ci sarà, alla scala mondiale.

Le folle sono quindi solo spettatrici degli eventi, li subiscono, con l’incosciente euforia di quelle che credono giornate di “liberazione”. Presto la macchina dello Stato viene rimessa in moto, opportunamente manovrata da un partito che si atteggia a nuovo ma che non è altro che il vecchio resuscitato sotto nuove spoglie, e nemmeno tanto. Ad esser impiombati, in senso letterale o figurato, sono solo i capoccia, poche unità. Passata questa prima fase della crisi, torna la dittatura del capitale come prima. La crisi economica però continua, in una spaventosa miseria per la classe operaia e per la piccola borghesia, che si riflette in una diminuzione della vita media di molti anni.

Nella relativa continuità politica c’è stata una catastrofica e distruttiva crisi economica, e le sue conseguenze restano. Ed è un fallimento del capitalismo in generale: spazzato via per sempre il mito della possibilità di un capitalismo razionale, controllato da un piano e ubbidiente ai voleri di un centro. Spazzato via il mito della possibilità di una distribuzione egualitaria di merci per il consumo, l’abitazione e la sicurezza della classe lavoratrice. Via il mito di un graduale miglioramento delle condizioni del lavoro salariato e di una sua equa ripartizione fra tutti gli uomini. Dopo la crisi dei capitalismi di Stato tutta la ideologia del capitalismo mondiale deve ritirarsi sulle sue trincee originarie pre-socialdemocratiche e pre-fasciste.

Del declino economico e della debolezza dei due gendarmi, prima russo poi americano, possono approfittare in una certa misura le borghesie europee, che ristabiliscono traffici e influenze fra Est ed Ovest. Ma altri giganti si profilano all’orizzonte: sotto un qualche padrone sono costrette a stare.

Ma quella a cui abbiamo assistito venti anni fa, come chiaramente scrivemmo nel 1991, è solo l’anticipazione, nel suo anello più debole, di quella che sarà la vera crisi generale del capitalismo in tutto il mondo, una crisi di sovrapproduzione che farà tremare le classi dominanti in tutti i paesi e rovinare le loro fradicie istituzioni. Sarà allora che, chiuso un lungo ciclo di accumulazione planetaria, si porrà la questione del comunismo, del vero comunismo, del partito e della rivoluzione di classe.

Partito Comunista Internazionale
 
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YoungRevolutionary
view post Posted on 14/1/2010, 20:55




vabbeh chi è che crede che ci fosse socialismo in Russia?
 
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Schopenbach
view post Posted on 14/1/2010, 23:54




CITAZIONE (YoungRevolutionary @ 14/1/2010, 20:55)
vabbeh chi è che crede che ci fosse socialismo in Russia?

tanta (troppa) gente...
Appena esci dall'ambiente "sinistra comunista" ti accorgi ch'è pieno! E' una delle molteplici ideologie da combattere..
Fortunatamente per quanto riguarda la Cina la situazione è diversa, e molta meno gente si fa ingannare (e grazie al cazzo, direi)..
 
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2 replies since 14/1/2010, 19:10   65 views
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